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TESTUALE: NUOVA SCRITTURA

 

iconografia

 

 

 

Nella poesia concreta la parola è al contempo immagine ma senza commistioni extra verbali. Si esalta l’identità verbo-visuale della parola, investigando i nessi strutturali interni delle lettere e i rapporti fra questi e le parole, con una programmata concretezza che rifiuta attenzione alle componenti simboliche, narrative o soggettive, cioè a quanto è esterno alle relazioni spaziali di contiguità o discontinuità verbali. Il poema concreto è una realtà in se stessa e non una poesia su qualcos’altro.

Dopo il 1960, con l’esperienza della “nuova scrittura” si intende mettere in discussione la razionalità della poesia concreta, volendo fra l’altro riscoprire la dimensione espressiva del segno-parola manuale cioè dell’atto dello scrivere. Sono pertanto prediletti la chirografia, la matericità dello scrivere, i suoi strumenti e supporti, cartacei e non. Tra gli obiettivi, recuperare ciò che la mano esprime pure in una certa misura dell’inconscio, ricollegandosi alle esperienze segnico-pittoriche degli anni ’40-’60 da Michaux a Wols, da Tobey a Twombly, da Mathieu a Novelli, per non parlare dell’antesignano Paul Klee.

Oltre a ciò e in conseguenza di ciò, si vuole pure indagare i rapporti tra scrittura-parola e disegno e si riscopre l’origine della scrittura dal segno primordiale e cioè il fatto che la parola scritta è pure iconicità, nonché le conseguenze nel mondo contemporaneo dell’abnorme sviluppo dell’immagine tramite la stampa, il rotocalco, la televisione eccetera, fenomeno questo particolarmente studiato dal gruppo dei poeti tecnologico-visivi.

In questo capitolo ci siamo limitati a segnalare solo gli autori italiani, ma ovviamente molti stranieri avrebbero potuto a buon diritto essere inclusi, quali, ad esempio: Alain Arias-Misson, Joseph Beuys, Jean-François Bory, Jochen Gerz, Joseph Kosuth, Bruce Nauman, Roman Opalka, Ben Vautier, Wolf Vostell, Lawrence Weiner ed altri ancora.

 

Vincenzo Accame

(Loano, Savona, 1932 – Milano, 1991)

In accordo con le idee espresse da Ugo Carrega sulla “Poesia simbiotica”, per Accame dimensione, forma, colore delle parole sono portatori di significato non meno del codice linguistico che le contraddistingue come membri di una lingua. Egli ritiene che la scrittura simbiotica è costituita da una serie di operazioni poetiche che tengano presente l’interazione tra segni verbali e grafici. Nelle sue tavole, frasi scritte in caratteri minutissimi impostano un discorso sulla linea basato sulla identità dei concetti enunciati e della disposizione grafica del materiale semantico impiegato. Ad esempio la parola ‘linea’ si fa linea e frasi brevi possono mimare forme geometriche elementari, come triangoli, quadrati, cerchi. (Tavola 1)

 

Vincenzo Agnetti

(Milano, 1926 – 1981)

Nel suo percorso di pittore Agnetti ha identificato l’arte nel rifiuto di dipingere per essere più presente nel contesto culturale tramite interventi scritti sul lavoro e il comportamento di quei pochi artisti coevi, come Paolo Ferrari e Manzoni, che operavano per una rottura totale del discorso estetico. Fu il periodo che egli chiamò “liquidazionismo” o “arte-no” cioè il fare arte come pura analisi di concetti, proposizioni e teorie operanti un “pensiero visualizzato”. In particolare ha analizzato le differenze tra il tempo iniziale e il tempo presente, tra il momento della realizzazione e il momento attuale: “dati più istanti-lavoro, ci sarà sempre una durata-lavoro contenente gli istanti dati”. Ne consegue il suo tipico paradosso “dimenticare a memoria”, un connubio di logica e straniamento come la scritta che esaurisce il suo “autoritratto”: “quando mi vidi non c’ero” o ancora altri assiomi come “la linea è il riferimento che si sposta” oppure “il tempo è conquistatore di spazi” o ancora in “Ritratto di ignoto” (1970) la frase: “coprendosi il volto cercava di assomigliarsi”.

Nel 1968 realizza “Macchina drogata” cioè una calcolatrice Divisumma Olivetti i cui dieci numeri sono sostituiti con altrettante lettere alfabetiche. Di conseguenza il codice numerico è tradito in quanto tale ma non distrutto, perché si trasforma in un’altra lingua, quella della parola e la macchina diventa a sua volta creatrice. Segue poi “Neg”, giradischi stereofonico che permette di ascoltare il silenzio perché quando giunge il segnale del suono, un circuito inibitore lo blocca. Vengono così prese in considerazione le pause della musica, il microintervallo fra suono e suono e pertanto si ascolta una musica in negativo. (Tavola 2)

 

Paolo Albani

(Marina di Massa, Massa, 1946)

Artista tra i più brillanti per ironia e incisività, Paolo Albani utilizza nei suoi testi tecniche di spiazzamento ed effetti sorpresa raffinati e godibili. Ha pubblicato raccolte di poesie come “Parole in difficoltà” (1973), “Words in progress” (1992). Con Alessandra Barsi dirige “Techne”, rivista che pone al centro dell’attenzione una sperimentazione verbo-visuale attenta al comico, al nonsenso, al bizzarro, al gioco. È membro dell’Oplepo (Oulipo) ovvero opificio di letteratura potenziale e ha curato con Berlinghiero Buonarroti il dizionario delle lingue immaginarie “Aga Magíra Difura” (1994) e con Paolo Della Bella l’enciclopedia delle scienze anomale “Forse Queneau” (1999). (Tavola 3)

 

Gianfranco Baruchello

(Livorno, 1924)

Parole e immagini paiono mostrare, nel punto in cui si incrociano, qualcosa che non è parola né immagine, ma che ha la sua radice nell’inconscio collettivo che oscuramente rammenta la nascita della parola scritta dall’immagine primordiale e quindi tende ad annullare la differenza tra i due sistemi segnici. “Nel mondo autonomo e autoproliferante di Baruchello, scrive Caramel, i due sistemi coesistono con naturalezza” quasi come nei graffiti dell’uomo delle caverne. (Tavola 4)

 

Mirella Bentivoglio

(Klagenfurt, Austria, 1922)

Mirella Bentivoglio è partita dalla constatazione che con il concretiamo la poesia diviene un oggetto così come nel passaggio dalla pittura rappresentativa a quella astratta la pittura si fa oggetto, in quanto dipinge se stessa e non altro. La Bentivoglio osserva che l’equiparazione tra linguaggio verbale e linguaggio iconico non poteva aver luogo senza il previo smantellamento concretista. Disarticolando la parola la poesia concreta la liberò per identificarla in concatenamenti-identificazioni fondati sui significanti. Franz Mon scrisse che “la parola è l’elemento primo nei testi concreti e non già la proposizione come in ogni altra letteratura”.

Proseguendo nella sua indagine la Bentivoglio si è mossa  in direzione dei segni-oggetti, segni-materie, sino alla quasi totale sparizione dell’elemento verbale. Ad esempio, nella performance “Gubbio 76” un grande albero secco di quelli potati a candelabro, veniva posto al centro della piazza e fatto rivivere dal gesto dei passanti che scrivevano le loro impressioni su foglietti che a centinaia sostituivano le foglie. Oppure nell’edizione del ’79 sempre a Gubbio, sotto la volta ottenuta capovolgendo l’albero, che si fa grembo, la lettura dei foglietti dava luogo ad una sorta di poema collettivo. Altra azione interessante è quella detta “Operazione Orfeo” (1982): una profonda caverna nelle viscere del Monte Cucco in Umbria veniva fecondata da una scultura-uovo in cemento. (Tavola 5 e 6)

 

Irma Blank

(Celle, Germania, vive a Milano)

Senza mai pervenire allo scritto come lo si intende normalmente, la tavola di Irma Blank, composta con tutti i mezzi dello scrivere, si potrebbe definire “come se fosse una scrittura”. Se la metafora consiste nel trasferire ad un oggetto il nome proprio di un altro secondo un rapporto di analogia, la Blank per analogia trasferisce ad una scrittura di puri segni asemantici il nome proprio di una scrittura composta da parole. Se non è verbale, potrà metaforicamente essere “oralità visuale”, costituendone il fantasma soggiacente, ed è comunque “urzeichen”, segno primordiale, testo-senza-testo ma non privo di contesto.

Implacabilmente minuziosi e addensati i graffiti di Irma Blank invitano a essere letti, come una assenza verbale ma leggibile, traccia colta nel trasferimento della analogia. E allora le minime differenze del tracciato si fanno sostanziali segni del tempo, del respiro, delle pause, dei silenzi. Siamo in una zona aurorale in cui il tracciato sta per significare ma non è ancora il significato: sono le “Eigen schriften”, come “il corpo del silenzio” o “racconto del silenzio” o “il libro totale”. Con l’ur-buch (libro ancestrale) la Blank introduce il blu, colore con il quale maniacalmente costruisce pagine blu che solo ai bordi sfrangiati si rivelano composte da una fittissima trama di ghirigori turchini.

Nel 2001 pubblica il libro d’artista “hdjt ljr” a stampa digitale ove l’alfabeto è ridotto a otto consonanti e nessuna vocale. Il testo è formato secondo a regole che man mano si autodeterminano. È leggibile e pronunziabile ma non comprensibile nel senso convenzionale, cioè non appartiene ad alcuna lingua codificata, è un testo aperto il cui significato è affidato al ritmo ed alla ripetizione.

Nel 2002 la Blank pubblica “Hyper-text” composto a stampa digitale e costituito da frasi scritte in inglese, italiano e tedesco ma illeggibili perché l’opacità dell’inchiostro bianco sul bianco della carta o della tela le rende evanescenti.

In una presentazione alla galleria Cenobio-Visualità (1974) Dorfles chiamava quella della Blank “scrittura asemantica per coloro che sanno leggere e per coloro che non sanno leggere”. In una recente pubblicazione di Irma Blank, “Trascrizioni 1973-79”, Francesco Tedeschi ricordava l’indovinello veronese considerato tra i primi testi originali del volgare italiano, che felicemente si addice al lavoro della Blank quale meta-discorso sulla scrittura:

se pareba boves / alba pratalia araba / alba versorio teneba / negro semen seminaba

spingeva i buoi avanti a se / arava bianchi prati / usava un bianco aratro / un seme nero seminava

(Tavola 7)

 

Alighiero Boetti

(Torino, 1940 – 1994)

Boetti è autore concettuale in perenne equilibrio tra coppie di antinomie: ordine-disordine, caso-necessità, cercare-trovare, simile-diverso, positivo-negativo, numero come ritmo e come illimitato. Boetti pensa che l’ordine sta al disordine come il caso sta alla necessità, oppure che chi si limita a cercare si perde all’orizzonte, e chi si limita a trovare si trova in balia del caso. Per Boetti la ripetizione è il ricordo, il passato pensato retrospettivamente oppure il futuro è progetto, ovvero che l’uomo è un condensato di tempo. Una sua frase-opera dice “mettere al mondo il mondo a Roma nella primavera dell’anno 1978 pensando tutto tondo”.

Buona parte della sua pittura è intessuta da frasi come “i mille fiumi più lunghi del mondo” o come nei ricami a mano delle parole “ordine-disordine” o nei tessuti e tappeti composti da frasi, realizzati in Afghanistan per mano dei tessitori del luogo. (Tavola 8)

 

Ferruccio Cajani

(Milano, 1927)

Poeta e pittore (Tavole 41-42). Tra i libri pubblicati, “Squille belle squille eterne e altre composizioni figurate” (1976), “Dieci poesie” (1976), “Voyage” (2001) con Liliana Ebalginelli, “Incudine ai tropici. Romanzo globale” (2008). Il modus operandi di Cajani assume la forma di una violenta reazione contro la scrittura normale: il suo è uno “schiaffo al gusto del pubblico”. Le “Dieci poesie” visuali ad esempio sono composte da due testi in sovrapposizione cromatica. Il libro d’artista “Come un cadavere, ovverossia morto che parla” (1995), manoscritto interamente dipinto a tempera, è composto di bizzarrie come le intere pagine sostituite da numeri o la repentina dilatazione/contrazione della trama narrativa. In “Non vale la pena di leggere” (2000) incalzano pressioni plurisensoriali che sfidano il “narrare ben fatto” sostituendolo con aspetti iconici e sonori. In “Voyage” e in “La valle dell’eterna andata senza ritorno” la vera protagonista è la pagina. È lei a parlare, in neri o neretti o chiari o per sezioni che tagliano il foglio in più blocchi compatti. Lei che ristagna in pigre monotone linee o che si allinea o si svolge a nastri che cantano a più inchiostri colorati (vanno da delicati cromatismi al più squillante porpora o che si adombra in bruno/seppia o fuliggine). Una forma di espressionismo al contempo verbale e grafico. Libri pure da contemplare oltre che da leggere.

 

Ugo Carrega

(Genova, 1935 – vive a Milano)

Dopo aver collaborato con Martino e Anna Oberto alla rivista “Ana Etcetera”, Carrega dirige a Milano dal 1965 al ’67 i quaderni di “Tool” in ciclostile come lavori in corso, ove enuclea sei strati fondamentali nella pagina stampata ovvero due elementi verbali (fonetico e proposizionale), uno grafico verbale o lettering, e tre segni grafici (segno, forma e colore), proponendo con il termine di “scrittura simbiotica” un sistema di elementi eterogenei che si influenzano reciprocamente. Ad esempio, è assai diverso scrivere con carattere tipografico o dattilografico o a mano oppure su pietra o con matita o penna eccetera: “ogni idea ha un suo modo specifico per essere comunicata, nascente dall’idea stessa”. Ne consegue la possibilità di un linguaggio intercambiabile in cui la parola è un elemento tra i tanti e può essere sostituita dall’oggetto o da altri segni. A Tool hanno collaborato Rodolfo Vitone, Lino Matti, Vincenzo Accame, Rolando Mignani e altri. (Tavola 9)

 

Luciano Caruso

(Napoli, 1944 – Firenze, 2002)

Caruso rivendica al gesto dello scrivere una funzione autonoma; la sua è una “antiscrittura” da sempre impegnata intorno ad un testo indicibile ove il verbum è ormai irrimediabilmente incarnato nelle cose, anche quelle che Caruso impiega come elementi verbali. Il verbum si fa tattile e si trasferisce ovunque, dallo spago alla corteccia, al sasso, eccetera. È un esercizio, quello di Caruso sul crinale che divide il campo della scrittura da quello dell’immagine o il pensiero dalla materia. Per Caruso l’accumulazione letteraria produce una sovrapposizione di situazioni che alienano all’infinito immagini e parole. “La ripetizione afferma, blocca il divenire”. Superare la citazione rivelerebbe la nostra predisposizione naturale al labirinto, spia di una psicologia raffinata, ambigua e subdola nella propria distrazione. Non è improbabile che esista un modo di percorrere il labirinto contando i passi e le svolte, senza lasciarsi prendere dall’ansia dell’irraggiungibile, confondendola con quella del già percorso. (Tavola 10)

 

Giuseppe Chiari

(Firenze, 1926 – 2007)

Per Chiari, “sconcertante e sottile come un Buster Keaton della musica ovvero elusivo nella sua seriosità” secondo la definizione di Bruno Corà, la musica è parola scritta non necessariamente ascoltabile. Era quindi inevitabile che egli confluisse nel movimento internazionale Fluxus ove si trovò agevolmente in compagnia di personaggi come John Cage, La Monte Young, Re Merce Cunnigham, eccetera. (Tavola 11)

 

Corrado Costa

(Reggio Emilia, 1929 – 1991)

“Penna sagace e sottile, partendo da terse e brillanti scritture, con i suoi modi pacati ed il suo accento emiliano, lasciava impronte indelebili, passando attraverso l’ordine delle cose e distendendo veli surreali come un fantasma giocoso, ma inafferrabile e conturbante” (Giovanni Fontana, “La voce in movimento”, 2003).

Puntuale l’analogia con l’immagine dello “sfogliare…” (1970), un pacco di foglie che è un libro oggetto e al contempo un concetto e un richiamo al supporto della scrittura nell’antichità classica, le foglie di papiro. Corrado Costa era abilissimo a cogliere il guizzo sfuggente del pensiero quando scopre le analogie, era un maestro zen della pianura padana. (Tavola 12)

 

Betty Danon

(Istanbul, 1927 – Milano, 2002)

Con Mirella Bentivoglio, Irma Blank e Ketty La Rocca, la Betty Danon è fra i protagonisti più incisivi della seconda metà del ‘900 in Italia. All’inizio del 1975 fissa su nastro l’attrito dell’azione dello scrivere e cioè il suo parallelo fonico. La scrittura, essendo per l’occidente la trascrizione dei suoni alfabetici, la Danon ci fa dunque ascoltare il suono della trascrizione stessa: un corto circuito concettuale e al contempo fisico.

In “Suono e segno” (Galleria Milano, 1977) espone una ricerca sul punto come inizio e linea come itinerario, convergendo l’attenzione su sette parole esprimenti l’essere e il divenire: soffio, respiro, spazio, sospiro, grido, pausa, silenzio. Ad ogni parola corrisponde un diverso tracciato, lineare o verticale od orizzontale, e di questa serie di azioni viene registrato il suono della trascrizione.

Nella “partitura di musica astratta” le linee del pentagramma sono tracciate a mano, dando corpo a pause-cesure, a nodi, andarivieni, ondulamenti, increspature sino a ridursi al punto finale.

Il titolo del libro “I & I” (1978) vuole invitare a leggere la vocale ‘i’ da due diversi punti di vista a seconda che la si osservi come aspetto visivo o fonico. “I & I”, io ed io in inglese, se riprende il tema punto-linea riassunto nella vocale ‘i’, evidenzia pure la contrapposizione speculare tra l’io e l’altro in quanto ombra dell’io.

Infine particolarmente interessante è la serie di parole che, man mano riscritte, passano dal segno normale alla sigla, poi alla linea e al punto, un percorso della notazione del suono sino all’estrema semplificazione astratta. (Tavola 13)

 

Mario Diacono

(Roma, 1930 – vive in U.S.A.)

Nel 1961 Mario Diacono pubblica con Emilio Villa la rivista “Ex”, che rimane fra le più intense testimonianze della poesia d’avanguardia della seconda metà del ‘900. Con “De nomisegninatura” (1962) pubblica una serie di trasformazioni sul corpo della parola per ampliarne l’area connotativa e costruendo frasi allucinate, descrittive di una società alienante. Nel libro successivo “Obj Texts” lo stravolgimento linguistico porta alla interazione tra immagine e parola. In “Jct 1”, sostituendo linee di colore alle linee tipografiche del “Coup de dés” di Mallarmé, ottiene una precisa collocazione visuale dell’evocazione del poeta francese nel contrappunto cromospaziale della pagina. In seguito, partendo da una analisi delle tavole marinettiane di “Les mots en liberté futuristes” (1919), ove si assiste ad un metalinguismo e ad una fusione tra linguaggio e materia, Diacono è attratto dalla polivalenza simultanea e dalla flessibilità segnica tipica dei sistemi di scrittura ideogrammatica e si dedica al rinvenimento di congiunzioni cosmiche tra oggetto e lingua in un segno unitario astratto in cui parola e oggetto sono intercambiabili e il senso del mondo non è altro che l’evidenza in sé e per sé. (Tavola 14)

 

Liliana Ebalginelli

(Schio, Vicenza, 1947)

Poetessa e artista (Tavole 43-44). Tra i libri visuali pubblicati “Voyage” (2001), “L/Amami” (2007), “Manes” (2010). In “Voyage”, composto a quattro mani con Ferruccio Cajani, il testo lineare della Ebalginelli, è immerso nella verbovisualità di Cajani. Con “l/Amami” l’autrice presenta non una raccolta di testi poetici bensì un unico poemetto in versi verbo visuali, una scrittura optofonica sui generis. Alcuni artifici impreziosiscono il testo, come il rapporto speculare tra le due facce del libro squadernato (forzando il raffronto, quasi un inedito tipo di rima baciata). “l/Amami”è libro smilzo ma denso crocevia di situazioni verbovisive sempre inedite. “Manes”, libro d’artista in tre esemplari, è costituito dalla scenotecnica di una performance/esposizione tenutasi al Museo della Carale nel maggio 2010 a Ivrea: una messa in scena di eventi, con i Mani, divinità famigliari, che si rispecchiano. Pure in questo caso è presente la figura dell’iterazione, per la quale il testo continuamente ritorna su se stesso con un andamento ondivago, come in certi momenti di “l/Amami”. Il libro d’artista restituisce perfettamente la messa in scena dell’evento particolarmente intenso nell’esito stilistico e lirico.

 

Vincenzo Ferrari

(Cremona, 1941)

La scrittura di Ferrari è una forma di pittura e viceversa una parola potenzialmente dipinta per ricondurre i segni grafici ad un senso non obsoleto, “Ut pictura verba” dechirichianamente. Ferrari crea una pittura a caratteri mobili e cioè un repertorio di ideogrammi (una mano, una freccia, un occhio, una spirale, eccetera) che combinati danno luogo ad un numero infinito di variazioni.

Ferrari ha congetturato intorno ad una enciclopedia dei dubbi, delle domande senza risposta, trovando nella figura del labirinto la metafora più appropriata, ove si incontra la verità sottoforma di una ulteriore domanda. Già l’amico Vincenzo Agnetti diceva: “io credo solo nelle cose che non esistono. Il rimanente è contaminato”. (Tavola 15)

 

Elisabetta Gut

(Roma, 1934)

Poetessa visuale Elisabetta Gut ha con altri come Luciano Caruso, Luciano Ori, Anna Torelli, Rochelle Cooper, lavorato sulla materializzazione del suono, nel senso di creare spartiti-oggetto anche tridimensionali facendo riferimento ad elementi oggettuali e materici. La Gut sovrappone, ad esempio, piume e materiali vegetali al rigo musicale per ottenere preziosi effetti visuali oppure crea “libri-strumento” con grandi segni esotici nel cui interno racchiude musiche cristallizzate in decine di fogli-petalo. (Tavola 16)

 

Ketty La Rocca

(La Spezia, 1938 – Firenze, 1976)

La Rocca ha creato una serie di opere basate su “un abecedario di gesti corporei”, soprattutto delle sue mani in un area già prossima a quella della body art. Le fotografie dei suoi gesti erano ridisegnate con scritte a mano di parole o frasi quasi sempre astratte in una forma di moderno calligramma, a ricalcare il percorso del gesto fotografato: una espressione di immediatezza che indicava la possibilità di un nesso tra “arabesco grafico” e “arabesco verbale”. L’elemento verbale era solo un modo per privilegiare il valore grafico e segnico dei movimenti corporei e dei loro tracciati.

La scrittura era l’ossessione di Ketty La Rocca e in scrittura trasformava il giardino, gli alberi, gli amanti abbracciati in un piccolo pantheon di calligrammi che comunicavano ciò che possono dire, ad esempio, le mani oltre a ciò che può dire il discorso comune. (Tavola 17 e 18)

 

Stelio Maria Martini

(Napoli, 1934)

Sin dal 1958 Martini ha dato vita a Napoli con Persico, Villa, Diacono, Desiato e Caruso a un ininterrotto succedersi di riviste e pubblicazioni da “Documento-Sud” ad “E/mana/azione” eccetera. Nel 1974 scrive “Neurosentimental”, un originalissimo romanzo autobiografico intessuto di immagini, quasi un genere particolare di foto-romanzo. La poesia visuale di Martini è quasi sempre condotta sulla simultaneità di immagine e chirografia ove pure l’elemento cromatico interviene ad impreziosire l’evento scritto, ad esempio nella serie “Ciò che mostra il tempo” (Verona, 1996) o nelle varianti di “Lettera morta” a collage di lettere scritte a mano su carte nostalgicamente ingiallite dal tempo. (Tavola 19)

 

Plinio Mesciulam

(Genova, 1926)

L’operazione di Mesciulam è singolare in quanto ingrandisce particolari di appunti, cioè del corsivo quotidiano cui non si dá comunemente importanza se non come frettolosa annotazione, e poi li incolla su tavolette fissate su aste di legno in modo che si possano trasportare come cartelli pubblicitari in una esposizione mobile per le strade. In tal modo i segni precari insignificanti si fanno “epifanie ostensibili” dell’effimero, come lo stesso autore li chiama. (Tavola 20)

 

Eugenio Miccini

(Firenze, 1925 – 2007)

La civiltà moderna è civiltà dell’immagine, dei consumi, dei mass media. Miccini in una sua dichiarazione di poetica scrive: “provenendo io dalla letteratura ho avvertito agli inizi degli anni ’60 che le parole non mi bastavano più, che risuonavano beffarde e incapaci di sopravvivere al rumore e alle ridondanze dei linguaggi e che non potevano più essere, per la tradizionale affabulazione poetica, spazi incontaminati e innocenti. Il rumore comunicativo messo in atto dagli attuali media e dalle ideologie che li sostengono, ha generato il silenzio. In queste condizioni ho tentato una nuova koinè tra parola e immagine tale da sviluppare un certo sinergismo espressivo capace di addizionare gli strumenti comunicativi presi dai due – e quanto diversi! – sistemi linguistici e iconici; oppure di esorcizzarli fino al punto di annullare il senso originario, di ritrovare un silenzio né impotente né imposto, in cui si risvegliano gli atti di pensiero, la meditazione, una raggiunta vigilanza critica. Parole e immagini sono quindi raffigurate per elisioni e iperboli, per interazioni o estraneità, a formare quelle tipiche comunicazioni imperfette, ambigue ed enigmatiche, di cui si vale l’arte e che possiamo e dobbiamo praticare tutti insieme” (“Testuale” a cura di F. Caroli e L. Caramel, Milano 1979).

“Miccini porta in questa operazione una più marcata sensibilità per le strutture sintattiche, per le interrelazioni dei segni, una autoriflessione linguistica e nello stesso tempo discorso sul mondo, che è pensiero poetico. Come nella filosofia presocratica, di cui non a caso egli ci propone una appassionata rilettura per immagini e parole” (F. Menna, dal catalogo “Trittico veronese”, 1986). (Tavola 21)

 

Magdalo Mussio

(Volterra, 1925 – 2007)

Magdalo Mussio è il chirografo per eccellenza; scrivere per lui è gesto privato, flusso diaristico di reinvenzione del quotidiano, ma anche narrazione che spesso si inoltra nella selva dell’indecifrabile e tuttavia uno scrivere che è durata, che ha pause, accensioni, svolgimenti e negazioni come in una prosa senza fine. La pagina di Mussio è temporalità frammentaria che la continuità della scrittura condensa in microsituazioni, un “gioco di rinvii e di allusioni che sono allo stesso tempo tracce e segni allarmati, memorie e aspettative ansiose, prove di un nuovo codice del quotidiano e del fantastico” (Vittorio Fagone, Catalogo Santandrea “Il gesto poetico”, 31-3-1977). (Tavola 22)

 

Gastone Novelli

(Vienna 1925 – Milano 1968)

Anche per Novelli le parole erano i segni prediletti della sua pittura; gli servivano per dare forma pensante alla perdita di senso dei segni pittorici tradizionali ed ecco perché doveva dipingere anche le parole, gli alfabeti, i numeri, “la linguistica dell’universo” come scrisse Alfredo Giuliani che con Elio Pagliarani, Giorgio Manganelli e Achille Perilli erano suoi sodali. Molti testi di Bataille, Beckett, Claude Simon, René de Solier erano da lui riportati su tela.

La sua ricerca coincide con l’esigenza di trovare una misura significante con un atto di fondazione dei dati essenziali preverbali e costitutivi della parola, della frase, del discorso, ricorrendo ad una serie di figure archetipe cariche di mito e passando per uno smembramento alogico della frase, per ritrovare una forma mitopoietica dei simboli grafematici tratti dalle figurazioni arcaiche (meandri, planimetrie, serpentine, scacchiere, indicazioni direzionali), simboli ancora attivi perché atemporali.

La sua è come una scrittura su dei muri ove il controllo razionale e l’automatismo operano all’unisono, né è possibile distinguere dove termina l’uno e dove inizia l’altro. È evidente il richiamo a Paul Klee e pure al “degré zéro de l’écriture”. (Tavola 23)

 

Martino Oberto

(Genova, 1925)

Nel 1958 Martino Oberto aveva proposto sulla rivista “Ana Etcetera” (1951-72) l’anapoietica ovvero una sistematica sovversione culturalmente anarchica del poetare ove ogni proposta stilistica, ogni enunciazione teorica, ogni deviazione dal codice deve rimanere sempre allo stadio di progetto. Oberto aborre il ‘finito’ e, come reca il titolo di un suo testo, “Je ne suis pas encore”. Per Oberto il fare coincide col pensare ed è forse il primo ad inaugurare quel modus operandi che sarà poi chiamato “concettualismo”.

Partito da una tabula rasa, graffiata su di un bianco uniforme (1955), Oberto Martino ha sviluppato una serie di opposizioni archetipiche, condensate in parole composte: r’evolution, museoon, ana/logical poetry, che mai troveranno una soluzione se non all’infinito così come, secondo un geometra barocco, la retta è una curva con raggio all’infinito o come matematicamente zero per qualsiasi numero darà sempre zero e qualsiasi numero diviso per zero darà sempre l’infinito. (Tavola 24)

 

Luciano Ori

(Firenze, 1928)

Luciano Ori fece parte del gruppo dei poeti tecnologici e poi visivi fiorentini. Per Ori la poesia visiva è pittura da leggere e poesia da vedere nel mentre che recupera e assume a proprio modello le strutture formali dei mass-media, pur sprezzandone sia i messaggi che i significati. Il rapporto tra immagine e parola si attua tramite la giustapposizione a collage e alla contrazione del messaggio a mero slogan. Il che è applicabile non solo alla pubblicità, ma pure in diversi altri campi di attività di una società come l’attuale che è società di immagini. In particolare, nelle sue “musiche visive” Ori lega al pentagramma figurine letraset o piccoli oggetti (spilli da balia, bottoni, fiammiferi), creando una sorta di musica oggettuale che è allegoria della quotidianità come ad esempio la tavola “Il risveglio” (1991), uno spartito ove i trilli degli uccelli sono rappresentati dal fitto intreccio dei voli intersecantesi. (Tavola 25)

 

Stanislao Pacus

(Cagli, Pesaro, 1938)

Come altri artisti concettuali, Pacus sostituisce l’immagine con la parola, volendo porla in discussione. Ciò che si concretizza nella serie delle “lapidi” che si presentano come paradossi in quanto non celebrano enfaticamente un evento ma lapidariamente lo criticano. Per Pacus “la tradizione è meglio dimenticarla”. (Tavola 26)

 

Claudio Parmiggiani

(Luzzara, Reggio Emilia, 1944)

Sin dalle prime ricerche Parmiggiani si interroga sul senso dei segni. Con il “libro di albicocche” (1969) evidenzia che il libro si può annusare, mangiare, toccare, oltrechè leggere. Con le “tavole di scrittura” ed il “papiro analfabetico” espone una scrittura estranea ai codici di lettura usuali, ma che tuttavia è leggibile iconicamente. Con “Deiscrizione” (1971), costituita da una persona nuda seduta per terra nella posizione della ben nota statua egizia dello Scriba, con tutta l’epidermide ricoperta da varie scritture, dal cuneiforme ai geroglifici, Parmiggiani crea un puro assioma tautologico.

Il senso può nascere da una situazione ai limiti dell’impalpabilità: uno spazio vuoto ad esempio col pavimento ricoperto da una polvere color zafferano, un altro spazio col pavimento ricoperto da orme della pianta dei piedi nell’incavo delle quali giacciono gocce di mercurio, una grande orecchia posta in fondo ad un corridoio cui corrisponde dalla parte opposta una grande bocca: colore assoluto, metafora di Ermete – Mercurio, opposizione tra parola e silenzio, queste sono alcune delle operazioni di Parmiggiani. (Tavola 27)

 

Luca Patella

(Roma, 1934)

Patella aspira a chiarire il problema dell’interdisciplinarietà e della complessità della produzione culturale. In tal senso si avvicina alle teorizzazioni Fluxus, quali quelle che Dick Higgins chiama “Intermedia”, basate sul fatto che le odierne discipline artistiche, dalla poesia alla musica, dalla pittura e scultura alla mimica e alla danza, e così via, tendono a sovrapporsi l’una sull’altra in forme che hanno preso nome quali l’event, lo happening, la performance, la body art, eccetera. Analogamente già Adriano Spatola nel 1969 aveva proposto la formula della poesia totale. Tornando a Patella, sono da rammentare i “sinergismi intersemiotici” di testi grafici ed immagini-azioni dei suoi libri come “Io sono qui” (1972), “Atlante Speciale” (1973-78), “Gazzette Ufficiali” (1972-79) e le “Analisi proiettive in atto” cioè performance pubbliche. Interessanti poi i suoi lavori speculari: una testa o una frase duplicate nello specchio ma in parte cambiate come “Ut ima ames-ma ami tu?”. (Tavola 28)

 

Giancarlo Pavanello

(Venezia, 1944 – vive a Milano)

Nel periodo 1977-1980 Pavanello aveva proposto una forma di “Teatro elementare”, composta da oggetti, interventi musicali, proiezione di testi calligrafici, recitazione frammentaria. Del gran teatro del mondo, per dirla baroccamente, egli percepisce il frammentario della strada, del mercato, del privato casalingo fatto di micro-eventi televisivi, di quotidiani e rotocalchi, eccetera.

Nel 1972 pubblica presso le edizioni Geiger del poeta Adriano Spatola gli “Epigrammi scritti con una penna di pavone”, come “Devo inventarmi un’arte”, “Purtroppo conosco già le esperienze artistiche dei cavernicoli” di qualità minimalista nella contaminazione tra i generi. La sua “poesia visualizzata”, soprattutto del periodo 1994-96, tra i cui testi figurano istantanee che congelano graffiti metropolitani, è una sorta di poesia trovata analoga a quella delle “Tracce” (1966) di Franco Vaccari.

Ma “poesia visualizzata” è pure la sua scrittura chirografa – forse un contraltare di quella trovata – ove la sovrapposizione, la cancellazione, la riscrittura, tutto rientra nella pulsione a comunicare, il che ci fa rammentare quanto già accennato sulle “Sibille” di Emilio Villa. È in fondo lo spirito dei tempi odierni.

Con la “Poesia critica” del 1996, Pavanello propone un “libro – assemblaggio” composto da venticinque scatole di cartone ciascuna delle quali reca stampati aforismi poetici come “Sole inquinato, rami secchi, fugge una serpe, una pineta pattumiera, la giovinezza si rinnova sporca” oppure “La vita è il virus dell’infinito, protetta dall’illusione” o ancora “La nebbia, partitura di una sinfonia attutita”. E queste scatole sono buttate alla rinfusa sul pavimento come pensieri che sorgono a casaccio nella mente.

Nel 1999 Pavanello inaugura la “Poesia laconica”, composta da una a non più di tre parole, associando ad esempio due sostantivi con un aggettivo o un participio presente: “apatia, siccità perdurante”, “musicastenia”, “solitudine, camera oscura”, “oblio, stracci sporchi”, “ricordo, anestesia lacerata”, “silenzio, marmo levigato”. In tale apparente dispersione percepiamo una dannata coerenza, la creazione di un teatro di eventi colti nella loro frammentaria fortuità che è forse una forma di purezza. (Tavola 29-30)

 

 

Tullio Pericoli

(Colli del Tronto, Ascoli Piceno, 1936)

Parole e immagini paiono metafore nel punto in cui si incrociano, un quid che non è parola né immagine, ma che partecipa delle qualità di entrambe, il segno. Nell’inconscio collettivo si percepisce l’origine comune del disegno-pittura e della trascrizione del discorso orale. Ma se la scrittura ci porta alla razionalità concettuale, il disegno ci riporta ad un livello prerazionale quasi infantile. Si pensi ai disegni di Klee, istintivi ed immediati, non ancora del tutto filtrati dalla riflessione. Così la manualità della scrittura sta alla scrittura stampata come il disegno sta alla fotografia o come la performance del poeta sonoro sta alla dizione professionalmente corretta del retore.

Nelle opere di Tullio Pericoli tutto ciò è particolarmente evidente in quanto gli riesce la identificazione tra disegno e parola. Ma tutto ciò accade pure, almeno in parte, negli autori in questo capitolo rappresentati. (Tavola 31)

 

 

Lamberto Pignotti

(Firenze, 1926)

A Firenze dal 1963 in poi si organizza il gruppo dei “poeti visivi”, composto da Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Luciano Ori, Ketty La Rocca, Maurizio Osti, Lucia Marcucci. Nel periodo 1963-67 il gruppo si identifica con l’attività del “gruppo ‘70” e con le pratiche di poesia tecnologica ossia con l’uso di parola prese a prestito da testi pubblicitari e politici che vengono trattate come materiale da collage. La poesia visiva nasce appunto da quella tecnologica, previo ampliamento del collage con immagini la più parte prese da giornali e rotocalchi. Da questo punto di vista la poesia visiva presenta caratteri di realismo quale testimonianza del contemporaneo secondo dopoguerra, non senza connotazioni ideologiche, politiche o filosofiche. La poesia visiva è dunque la messa in opera di elementi verbalmente esprimibili che accompagnano, sviluppano e utilizzano l’immagine e la inglobano.

Dal 1972 al ’79 aderiscono al gruppo altri artisti non solo italiani come Bentivoglio, Perfetti, Sarenco, Bory, Damen, De Vree, Arias-Misson, Valoch, Takahashi, Todorovich.

In particolare Lamberto Pignotti, pensa che “la retorica tradizionale si configura ormai in retorica visivo-verbale ove la metafora si sovrappone all’allegoria, la frase all’ideogramma, la parola al segno. Tutti comunichiamo con un linguaggio dalla sintassi intrecciata che scaturisce da una grammatica composta da verbi visivi, proposizioni olfattive, aggettivi auditivi, sostantivi tattili, avverbi gustativi. Così la poesia visiva va verso la “plurigrafia”. D’altra parte – aggiunge Pignotti – in una società gremita di immagini e satura di parole, la prima e più istintiva cosa che viene in mente è quella di fare un po’ di vuoto e un po’ di silenzio: all’horror vacui subentra l’horror pleni”. Così in tempi più recenti, Pignotti ha iniziato a cancellare particolari di immagini di rotocalco, “poesie invisibili”, tramite abrasioni che suggeriscono analogie con le parti andate perse di antichi affreschi o con le raschiature di remoti palinsesti. (Tavola 32)

 

 

Concetto Pozzati

(Vo’ di Vecchio, Padova, 1935)

Pozzati afferma che la parola, che prima era un discorso sull’arte figurativa o  una didascalia, una classificazione, una indicazione, una dichiarazione, un riconoscimento, oggi è segnale iconico oppure interrogazione dell’arte su se stessa al suo interno: l’arte vuole parlarsi, criticarsi vivendo la propria insicurezza. L’arte pratica la critica dell’arte. “Non c’è più – egli dice – nel mio lavoro dualismo tra parola e immagine, che sono ormai la stessa cosa”.

L’opera di Pozzati, dal 1970 in poi, è traccia del tempo: esemplari sono le sue “Porte del tempo” ovvero “Registrazioni, Dispense, Memorie” come dicono i titoli delle sue opere, “Dizionari delle idee ricevute, inventarî”. (Tavola 33)

 

 

Giovanna Sandri

(Roma)

Tanto nei suoi versi che nelle sue tavole parietali, cioè sul piano dello spazio fisico, Giovanna Sandri, manipolatrice di spezzoni segnici, eleva la lettera alfabetica a protagonista dell’opera. Il rito verbale equivale ad archetipo pittografico. Ciò viene espresso dalla lettera spezzata, distorta, ampliata sulla superficie della pagina, una traccia di nuclei semantici che alludono all’oggetto, ne sono l’ombra e pure il senso di enigmi inscritti in un cielo stellato di alfabeti. (Tavola 34)

 

 

Franco Vaccari

(Modena, 1936)

Per Franco Vaccari, all’inizio della sua carriera di artista, contava soprattutto l’esplorazione del mondo dei graffiti, inteso quale coro di voci anonime che urla i propri desideri e le proprie rivolte. I graffiti sono il più radicale rifiuto di ogni strumentalizzazione, sono l’espressione immediate di una situazione esistenziale che tenta di forzare l’opaca resistenza del mondo. In tal senso Vaccari ha pubblicato “Le Tracce, poesia trovata” (Bologna, 1966), un’ampia raccolta di documentazione fotografica di graffiti. Conseguentemente Vaccari si è trovato interessato ai “precari incerti rumori della nascita del senso” come lui stesso dichiara. L’attenzione, egli dice, deve essere portata verso quelle zone linguistiche di frontiera che non si sono ancora cristallizzate in nitide strutture concettuali. Con l’uso di linguaggi paralleli egli vuole evidenziare la germinazione del senso, la sua proliferazione, la sua dinamica, il suo esistere come movimento che occupa posizioni che sono all’opposto della coscienza tautologica. Lo spazio mentale così individuato è quello incerto, ma pieno di fermenti, ove non esistono ancora configurazioni stabili, formulazioni esplicite, concetti definiti, ma dove è possibile cogliere questi elementi allo stato nascente.

Nascono così le sue ricerche per esempio sui suoni dei grilli, sul codice a barre delle merci, oppure in una serie di “esposizioni in tempo reale” come la numero 4 “lascia una traccia fotografica del tuo passaggio” (1972), ove l’artista invitava il pubblico a farsi fotografare in una apposita cabina, esponendo poi tutta la serie delle foto tramite riporto fotografico su tela emulsionata. (Tavola 35)

 

 

Patrizia Vicinelli

(Bologna, 1943 – 1991)

In stretta correlazione con la propria poesia sonora è la sua “Pittografia” come lei stessa la definisce, ma invero la cifra stilistica del suo operare è riassumibile come sconnessione al livello semantico e sintattico di un discorso che appena avviato si sfascia nella rottura della dizione – nelle performances pubbliche – eppure nella frantumazione della parola i cui cocci sparsi sulla superficie della pagina, paiono precariamente usati per ricercare a tastoni una qualche possibilità di senso delle pulsioni preconscie o subconscie. Così è la sua pittografia, un alfabeto di segni privati che con quello codificato non ha altro che un allusivo rapporto. (Tavola 36)

 

Emilio Villa

(Affori, Milano, 1914 – 2003)

Nel periodo 1980 – 84 Emilio Villa crea una serie di testi poetici dedicati alle varie Sibille ove, accanto a lavori a sviluppo lineare di agevole lettura, convivono altri composti da intricate sovrapposizioni, sibillini appunto. Villa ha volutamente lasciato allo stato di abbozzo, corretto e ricorretto, una poesia nel mentre che si sta facendo.

E l’indecifrabilità è stato pure il grado ultimo dell’esperienza villiana, a manifestare quell’intravisto nell’imperscrutabile mistero dei grumi polisemici del linguaggio che lo costringono a smantellare le funzioni referenziali del discorso, pienamente accettandone il rischio della dispersione del senso: “il senso non sia mai abbandonato, né lasciato cadere, ma resti affidato alla vicenda della mirabile opera del Verbo e delle interiezioni  e dei vocaboli di scarto” (da “Eructavit cor verbum” in “Heurarium” Roma, 1961). (Tavola 37 e 38)

 

William Xerra

(Firenze, 1937)

Xerra stabilisce un rapporto concettuale tra parola e immagine. Come nel quadro di Magritte “Celà n’est pas une pipe” per dire che l’immagine non è l’oggetto, così Xerra scrive sopra un’immagine o un testo la parola “vive”, usata dai correttori di bozze per indicare che la correzione è sbagliata e quindi negarla. In tal modo Xerra evidenzia la testimonianza dell’immagine stessa, la assevera.

Di recente Xerra è passato ad una ulteriore operazione, riproponendo l’antico paradosso del mentitore, attribuibile ad Eubulide di Mileto: “tutti i cretesi mentono, io sono cretese” ovvero se dico “io sto mentendo” ciò che affermo è vero se e soltanto se è falso. (Tavola 39 e 40)

 


 
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