Note sulla poesia di Maurizio Cucchi

Nota sulla poesia di Milo De Angelis

Nota sulla poesia di Giancarlo Majorino

Note sulla poesia di Giampiero Neri

 

 

 

NOTE SULLA POESIA DI MAURIZIO CUCCHI

 

La poesia di Maurizio Cucchi è un tracciato di indizi assai vicino alla ricostruzione non completa di un sogno. E, come in ogni ricostruzione onirica avviene, anche qui è impossibile definire la realtà del soggetto narrato. Eppure in questo procedere letterario l’autore non è uno scrittore surrealista o sognatore, non ricorre a simboli o figurazioni mostruose, anzi annota brevi momenti di azioni semplici e minuti oggetti quotidiani; materiali necessari per una descrizione fuori campo di ciò che va in scena: un dialogo con la sua vera o presunta storia personale, identità anagrafica del soggetto nella realtà. L'impegno del poeta è svolto in questo continuo scorrere fitto e nell'evidente intenzione di ricostruire le ragioni delle azioni, dei comportamenti quotidiani, e così pesare l’indissolubile gravità della coscienza nella scelta per il mondo. Lo scorrere dei testi ha un andamento telegrafico, più che nel ritmo sintattico, in quell’ implicito respiro psichico e viaggiante. Non è certo questa di Cucchi una poesia sperimentale, neoconcreta e neanche neoromantica o del verso innamorato, ma velatamente una scrittura “giallo-autobiografica” attraversata da un (chissà quanto intenzionale per l'autore) occhio cinematografico. Tutto ciò nei versi assume una nuvolosità onirica, come di chi si racconta immerso in un torpore della coscienza più volte sospesa. I versi, cadenzati in un continuo inciso d'apertura, sembrano stare lì a indicare e ricercare il vero testo che manca, commentando fuori-campo storie ordinarie e umili, intrise di autobiografismo. Un autobiografismo che cita se stesso solo nell’avviamento del discorso, al fine di riordinare il materiale del racconto, dei fatti, così come avviene per la prima registrazione d’indagine svolta da un detective. Se manca un soggeto identificabile e storico non manca però un luogo: Milano assume ben presto la valenza di contenitore, grembo e carne, colta nel torpore della sua recente cronaca storica e di costume in anni densi di contraddizioni sociali, contraddizioni violente e trasformatrici del tessuto economico e demografico.
Il disperso è il primo libro di poesia di Maurizio Cucchi: in esso sono concentrati i fondamenti della sua poetica. Così nell'apertura (“certo non solo la cartella…”) si dà immediato il segno e l'andamento del racconto nascosto che s'intende dissolvere nella materia intermittente della lingua. ll disperso, Levataccia, I fatti della settimana, Libretto personale, Alcune scene, Racconto più che titoli sono puntelli del ritmo narrativo, elementi linguistici segnalatori del fibrillare della psiche dell'autore, del suo essere un corpo solo con la materia della scrittura.
Nella raccolta edita da Guanda nel 1981 M. Cucchi conferisce a Glenn un ritmo sospeso, sognante, mentre nella poesia volta in prosa appare evidente la traccia di un dialogo-monologo sempre ricostruttivo di eventi spezzati, mai conclusi, forse impossibili da raccontare. Non c'e mai azione nel senso dinamico narrativo, non si sviluppano psicologie o particolari vicende, piuttosto nasce già alla prima battuta un luogo sospeso, gallegiante nella memoria. Qui l'autore sembra restare incerto tra l'impronta aleggiante, descrittiva e il prologo, l'antefatto di una vicenda a intreccio complesso dove il personaggio Glenn possa svilupparsi in vere e proprie profondità di pensiero e di azioni. Tutto sembra svolgersi nell'oscurità vitale di un liquido amniotico, pre-nato al mondo, alla realtà intesa come cronaca e circostanze temporali.
Nel Figurante profonde sono le riflessioni dell'autore sulla genesi della propria poesia che egli chiude con le parole rivelatrici:
«... ogni fase decisiva dell'esperienza porta con sé il suo linguaggio, il suo spazio espressivo (o almeno dovrebbe farlo), anche se è chiaro che non si fa mai piazza pulita del passato. E poi ogni stazione potrebbe essere l'ultima. La verità è che “il viaggio non offre garanzie”». Segue poi l'autopresentazione dei frammenti poetici relativi a Glenn:
«… Molto spesso ciò che scrivo è come l'esito o la sintesi di un periodo, l'atto selettivo che definisce e risistema, ridistribuisce i dati e le energie di un diario improprio e immaginario; una provvisoria conclusione dopo l'accumulo di materiali a volte anche disparati o connessi dal caso e dal tempo o da qualcosa che può sfuggire alla logica di un controllo che esiga risposte immediate».
Nella Donna del gioco l'autore sceglie prevalentemente una struttura a versi corti, talvolta brevissimi. Gli necessita un respiro più lirico che descrittivo, ma anche più astratto, assai più denso di metafore, allusioni, ellissi tematiche. Tuttavia un certo fremito scorre nell'intreccio nascosto del ritmo, un'emozione che il poeta riesce a trasmettere a causa dell’ autentico coinvolgimento provato. L'unica riserva è costituita dalla eterogenetà dei modelli, Glenn, Disegni di carta, Nel felice anno, che costituiscono sì corpo di una raccolta ma certo non si rafforzano l'uno con l'altro in questa occasione. Forse la risposta risolutiva va letta nella scelta che l'A. fa di porre Glenn a figura raccoglitrice, simbolica di questi materiali spezzati e incompiuti: risultati di tracce semiscomparse o forse soltanto sognate, tracce fantastiche apparse tra il torpore del risveglio e la messa a fuoco della realtà. Tutto questo viaggio infine è agito dall’autore nel tentativo di raggiungere un nitore filmico che ci dia l'acquiescenza se pure instabile a un’identità storica.
In Poesia della Fonte (Mondadori 1993) Cucchi ritorna al verso chiuso articolato in brevi strofe, ricomponendo il ritmo nella forma più classica della poesia occidentale. L'A. non abbandona tuttavia le tematiche noir e filmiche, però concede assai più spazio all'improvvisazione narrativa e alla notazione da viaggio; un viaggio che costituisce un segno di maturità del personaggio Glenn.
Leggendo L’ultimo viaggio di Glenn di M. Cucchi mi viene in mente Cesare Pavese, quell’aspra consapevolezza dell’io poetico che quando narra non può eludere la Storia. E, pur nell'accento solitario e lirico, questo legame indissolubile, che li pone l’uno di fronte all'altro nella trasparenza dell'umana fragilità, emerge qui con semplicità e passione, tutto d’un fiato.
Esemplare l’apertura della raccolta:

 

La prima immagine è il lago di Garda
Scavata in bianco e nero fino all’Ortles.

Sarò solo un bambino,
ma mio padre vive in eterno.

Dopo la Jugoslavia, nel luglio’41,
con firma fiorita
salutava la Magda.

 

Questi racconti in Glenn non sono racconti ma piuttosto una raccolta di tracce, indizi, immagini sfumate dall’evocazione degli affetti e dal tempo, così come avviene per le foto d’album di famiglia, che contengono il fiato di un passato, conservate e consegnate alla memoria del proprio cerchio parentale. E' da quell'incontro emozionante e disarmante con volti, sorrisi, posture, abiti e paesaggi colti per l'eternità dei loro gesti “perduti” (eppure una volta erano vivi ), che M. Cucchi ricostruisce il filo intimo ma non intimista di una storia umana. Una storia che da biografia personale si fa universale, per quel bisogno di narrarci l’avventura di esistere con un canto dimesso e pur carico di tutta quanta la fragilità che ci unisce e ci consegna umani e vulnerabili al tempo della storia. Ecco perché l'omaggio che l'autore rivolge a Rutebeuf (poeta del XII sec) e a Glenn/Luigi (la figura del padre), sono equivalenti. I1 primo viene eletto a maestro poetico del quale si ammirano la sensibilità per lo scavo interiore e l’interrogazione dialettica rivolta alle ragioni dell'esserci e del fare, riconoscendo alla poesia il ruolo e la testimonianza di una conoscenza del mondo che si radica nella propria carne: il pensiero divenuto forma può reggere lo scavo di verità solo se sorretto da questo pathos.
Così recita una strofa dedicata al poeta provenzale:

 

“…Il pensiero come lampo d’istante
che comunica con l’infinito
e degenera nella parola.”

 

Il secondo, Glenn/Luigi, è il marchio assoluto del nostro bisogno di amare. Amare quell'amore che si fa amare, e alla luce dei nostri occhi si offre punto di riferimento, nella familiarità dei nostri rapporti si fa ascolto, disponibilità, modello per i nostri sogni, immagine necessaria per una quotidianità del mito che tiene in noi sempre desta l'emozione dell'esperienza. Figura autobiografica dunque che nell'agire ci insegna dell'esistenza, dei limiti della propria umanità, consegnandoceli come un bene fatto narrazione, parole, testimonianza di sé.
Così scrive Cucchi in una strofa di Glenn:

 

“…ciao, dico adesso senza più tremare.
Io ti ho salvato, ascoltami.
Ti lascio il meglio del mio cuore
E con il bacio della gratitudine,
questa serenità commossa.”

 

Ed è infine attraverso la traccia biografica di una “etica disponibilità'”, bisogno primario dello scambio, che M. Cucchi ci consegna una poesia distante dal vuoto dell'effetto lirico ordinario e scontato, immergendosi senza riserve nello scavo della propria carnalità temporale per poi riemergere, con essenziale sobrietà, voce narrante; una voce narrante credibile e densa di pathos quotidiano espresso nel registro di un parlato basso, comune, linguisticamente vivo e palpitante.

Milano, 23 aprile 2002
Vincenzo Pezzella

 

 

NOTA SULLA POESIA DI MILO DE ANGELIS

 

Poesia e destino, La cesura, Le sostanze psicotrope e la parola: i titoli dei saggi contenuti nella raccolta del 1982 rendono più esplicito il materiale di interesse del poeta De Angelis. Un materiale filosofico, ma ermetico, velato di occulta conoscenza; conoscenza archetipicamente connessa al rito. E, poiché il rito originario è ormai perduto, anche quel “sapere” ci giunge per visione, non nel senso Rimbaudiano né Blackiano, bensì nei termini della fenomenologia percettiva, dove la realtà degli oggetti è indistinguibile dalla nostra idea di mente. E’ questa distanza che crea la irregolarità del nostro respiro poetico, ossia l’oscuro del linguaggio, l’incepparsi della narrazione, la prepotenza dei contrasti (metafore e metonimie). Questo rigore implicito scarnifica lo scheletro linguistico della poesia in un montaggio di versi propiziatori e codificati. Vi sono tracce di un surrealismo post-avanguardie nella poesia di Milo De Angelis: la poesia intesa come meccanismo della significazione ermetica. La scrittura ricalcando un automatismo psichico e parzialmente liberata dai modelli formali della poesia classica si agglomera in una sintassi provocatoria come un inciampo continuo; una scrittura apparentemente ad occhi chiusi che ricorda lo svelamento enigmatico del cadavre exquis nelle sedute medianiche dei caffè d’avanguardia.
In Somiglianze (1976) una profonda melanconia del vivere segna gli eventi del quotidiano. La scrittura avanza con un sommesso respiro poetico; ciò che si vede, le “cose” del mondo si confondono con i pensieri del qui e ora, e cioè di chi si coglie amaramente e sofferentemente distaccato dalla realtà intesa come “azione” del fare della “Storia”.
Il soggetto esprime fortemente questa condizione intima e nascosta, e ne viene fuori un’atmosfera dantesca, purgatoriale, di attesa limbica. Una percezione non visionaria o metafisica, ma catalettico-visiva, la percezione di cose e oggetti che restano nell’alone di un torpore cosmico; cose distanti e incomprensibili, ma soprattutto mute, presenze insensibili alla necessità che la nostra voce di uomini ha di ricevere da queste uno scuotimento, un’emozione forte, una partecipazione trabocchevole e dichiarativa verso il mondo, dove siamo inevitabilmente immersi e talvolta ciecamente perduti nella nostra esistenza quotidiana.


Così in una poesia del nostro autore:

 



Eppure era la gioia
Le luci tremano, nella vetrina,
e vorrebbero entrare in un significato.
Qui è impossibile
Legare i minuti a qualcuno:
il tempo non si accorcia
con un progetto,
tutto ha la sua lunghezza.
Non coincide con ciò che pensa, non può.
Eppure era la gioia
Troppo viva per non crederci. Prendeva
con le mani amori e amori
che si convertivano in uno solo.

 

Ne risulta, da questo ritmo dello sguardo perduto nella memoria, una poesia interrotta, spezzata da continui punti sospensivi e da frequenti domande aperte, non rivolte a specifici personaggi, bensì al contesto, a chi è casualmente lì in ascolto. Questo sforzo del dire, offerto alla comprensione dei nostri amori, alla fuga dalla nostra solitudine, ci risulta vano. E’ un’esperienza che pur vissuta con l’altro ci riconduce irrimediabilmente ad un soliloquio intimo e denso di straniamento del quotidiano. Impossibile dunque entrare in empatia con il mondo delle cose, con ciò che è “fuori” a noi esterno, estraneo. E finanche quando ci leghiamo nell’amore all’altro corpo questo distacco ci rende freddi, ci ammutolisce, ci stupisce come una follia autistica. E allora solo quel «vengo», quel «veniredentro» nel corpo dell’amore può ricucire, forse, questa alienazione del sentire, questo lutto del reale. Ecco perché tutto l’afflato narrativo di De Angelis assume la metafora di un lento atteso coito un chiesto e offerto orgasmo. Un “senti; ora: qui, me, la mia solitudine umana”.

Così come avviene in questa poesia: L’incidente, esemplificatrice delle brevi riflessioni fin qui svolte.

 

Guardando la cinquecento
schiacciata dal camion
dice prendimi le mani e pallida
prepara il coito

Ma qui, vuoi farlo qui?
si, lentamente
il sangue non è il luogo della terra
ma una pittura
il movimento sta iniziando.

 

Milano, 29 aprile 2002
Vincenzo Pezzella

 

UNA BREVE NOTA SULLA POESIA DI GIANCARLO MAJORINO

 

Fin dalla prima raccolta La capitale del nord, è evidente nella poesia di Majorino l’attenzione per il magma della lingua. Lingua intesa come corpo sociale e perciò capace di esprimere, raccontare, testimoniare le trasformazioni del soggetto nella società in cui vive. Questo corpo non è solo lessicale, ma anche metaforico di un bisogno ineludibile del luogo storico in cui l’“io esiste”, formulando le ragioni o le condizioni, le intenzioni e i valori della propria soggettività. Nella poesia di Majorino questo “io” agisce trasversalmente nel registro lirico e in quello epico. Così si legge nell’apertura della Capitale del nord:

  O mia città vedo le porte gli archi
che un tempo limitavano il tuo cauto
intrecciarsi di case strade parchi
oggi spezzarti come una frontiera
[…]
 

E poi in un frammento tratto da Lotte secondarie:

  Addossato al muro
sento il futuro.
Sta già facendosi
 
La capitale del nord contiene sia la cesura che il conflitto di due condizioni e variabili: il mondo sociale, le sue leggi da una parte, e dall’altra l’io che con le sue argomentazioni e utopie è proiettato alla decostruzione e rifondazione di quelle stesse leggi. Azione questa della prassi letteraria che nei gruppi e propositi delle avanguardie non sempre si limita alla dialettica della lingua e dell’incontro, ma che in più occasioni durante la ricerca, si è dispersa in nuove ortodossie e intolleranze. Queste istanze di una storia recente del nostro tempo sono ben presenti nella raccolta poetica sopracitata da cui emerge quel materiale linguisticamente compresso, pronto a deflagrare nella dispersione e frammentazione sperimentale, e che diverrà carattere letterario globale di un intero ventennio.
  […]
bellissima poesia di tempi nuovi
una distribuzione di fiducia/sfiducia
[…]
fedele statica in movimento
questioni oziose la Poesia non
corre con l’uomo?
[…]
 

La capitale del nord, opera anticipatrice del nostro autore, è un testo chiave, lungimirante, che raccoglie in sé, già dal 1953, tutte queste scintille di registri diversi e li amalgama nel contenitore metaforico del corpo sociale: la città, luogo della storia e dell’io, qui inteso dialetticamente connesso all’esistenza dell’altro da sé, scevro da postulati metafisici, ma piuttosto portatore di esperienza di ripensamento e di fallibilità.

  […]
un uomo guarda un uomo
che vortica sui flipper
un personale ozioso
attende o spera che
non venga clientela
una ragazza ingoia
toast con nessuno al bar
da oscure vie centrali
uscito e contro il vetro
quell’uomo guarda me?
[…]
 
Così tra le maglie premonitrici di questo poemetto urbano, dunque, già si avverte, ad un esame critico e riflessivo quello scollamento tragico e anche violento dell’io sociale che, isolandosi nella sfera del proprio quotidiano autocelebrativo, relegherà poi la poesia delle avanguardie in un registro di chiusa articolazione intellettuale, finito spesso in un vuoto gioco formale; registro profondamente impoverito e da cui Majorino prenderà nel seguito della sua ricerca delle intelligenti distanze poetiche.
Queste scelte sociologiche, letterarie, adagiatosi nella pigrizia di modelli divenuti coattivi hanno spuntato per molti anni quelle armi della poesia che sono l’essenzialità e il luogo; condotta cieca che ha operato una dimenticanza, un oblio linguistico, facendo perdere la consapevolezza che, nell’elaborazione poetica, la forma si incarna in una specificità dell’esperienza soggetiiva di un dato tempo storico. Il tempo della poesia, dunque, è tutto nel presente, non in quanto modello di eternità, bensì espressione di conoscenza e di mutevolezza.
  […]
gli uomini camminano veloci
la donna non si lascia pitturare
un giovane spaccato in tre lavori
per rabbia e ricomposto in unità
animali preistorici: un barbiere
tenta le serve con le brillantine
ho puntellato i miei frammenti con
queste rovine
[…]
 

L’indugio nella sperimentazione in chiave autoreferenziale ha sortito alla lunga una rinuncia della forma artistico-letteraria e generato una fragilità di argomentazioni, di invenzioni e di temi della poesia. Ne è seguito un indebolimento dello sguardo poetico che ha introdotto una afasia verso il mondo delle cose e dei fatti, come se nulla più si potesse narrare tranne la propria crisi, il proprio “essere e nulla”; condotta oltranzista perseguita da alcune frange neoavanguardiste, le quali sbandierando un fragile vessillo rivoluzionario contro la società mediale contemporanea, han diluito l’ultimo lembo di contatto con la realtà del proprio tempo.
In tale approssimazione intellettuale la lingua, privata della necessità interiore, separata dal soffio storico-lirico, resa corpo vuoto, ha perduto la sua funzione epifanica, autentica: “il sentire e il dire del mondo”, rinunciando così a quell’io agente che si fa narrazione, termine di modifica dello spazio, del luogo della storia.
E parliamo di quella storia minuta, sempre più inseparabile dalla quotidianità profonda, storia intesa come nostra comunità d’affezione. Come leggiamo da alcuni frammenti di Alleati Viaggiatori (Mondadori 2001):

 

andavamo tutti come fosse un’emigrazione
chi per acqua chi per terra, allarmati
[…]

ma era come quando nella tundra incendiata
fuggivamo insieme felini e prede
[…]

 


Pertanto il nocciolo poetico di Majorino si agglomera in un inestinguibile desiderio di dar vita a figure, come egli stesso le chiama, che agiscono nella dignità della coscienza. Figure più asciutte ed essenziali dei personaggi della prosa o del grande romanzo che Majorino pur ama, e proprio per questo esse sono portatrici non di un tempo descrittivo di intrecci, bensì di un tempo circolare lirico-epifanico, del corso della vita e della morte. Ecco perché in loro la costante possibilità di esprimersi si dipinge per Majorino come l’irrinunciabile segno di un raggiunto significato, di una dignitosa raggiunta identità umana.

Milano, 5 maggio 2002
Vincenzo Pezzella

 

NOTE SULLA POESIA DI GIAMPIERO NERI

 

La poesia di Giampiero Neri è intessuta di tracce decantate dal ricordo. Fin dagli esordi della prima raccolta L’aspetto occidentale del vestito, nell'apertura «[…] cosa è stato di quei piccoli segni, neri, immagine e somiglianza di un impegno continuo?», l'autore dichiara implicitamente la sua poetica, svela le corde del suo versificare e il vibrare del suo animo. Neri sembra indicarci che è impossibile afferrare “il teatro della vita” nella sua globale mutevolezza perché fenomeno di altra natura dal nostro pensare. Tuttavia possiamo cogliere un’occasione, l’unica, quella dell’interpretazione parziale dei pochi segni fossilizzati e raccolti nel nostro mondo interiore, nella psiche. Perciò, a coerenza di tali premesse, il linguaggio poetico è uno sforzo grande perché teso a definire comunque degli orizzonti, dei limiti, ipotesi di cominciamento di un’esperienza che è stata cinestesica e che in quanto lingua va decantata con lentezza, con essenzialità fino a raggiungere un’asciutta narratività ed evocazione poetica. Così Giampiero Neri si serve delle forme poetiche (poemetto in prosa, brevi epigrammi) come una conseguenza dell’esercizio espressivo della sua scrittura piuttosto che come scelta di un modello retorico della poesia occidentale.
La poesia di Neri suggerisce allo stesso tempo sia uno stato di sospensione che di avvicinamento macroscopico: il testo è modulato in aperture narrative che presuppongono dell’altro, del materiale forse, anzi certamente, perduto, irrecuperabile, inevitabilmente destinato alla dissoluzione, alla riduzione a pochi “segni”, parola chiave nell’“Albergo degli Angeli” (1976, edito da Coliseum).
Giampiero Neri fino ad oggi, ha dato alle stampe sei raccolte di versi, con un intervallo di molti anni l’una dall’altra, le prime distanti anche dieci anni. Ciò evidentemente risponde a quella scelta interiore di lenta e decantata emersione della lingua poetica che l’autore compie e a cui si accennava all’apertura di questa nota. La poesia di Neri è una poesia che suscita un’emozione di lettura simile all’osservazione di un fondale d’acque chiare al margine di un rivo dove quella trasparenza, seppur mossa dalle correnti, ci lascia individuare distintamente i sassolini, le alghe e la minuta vita biologica di un universo inconfinabile benché osservato in un frammento puramente occasionale e personale. E’ un’esperienza in cui il poeta sembra fermare parvenze mutevoli in segni, affidandosi alla lingua che ne fissi il ricordo, ne suggelli il sottile trasporto con il ritmo del respiro di chi partecipa comunque, ironicamente incantato, al teatro naturale della vita.
Opera di continuità o work in progress, come l’autore definisce le proprie poesie, non segnate da esplicite connessioni di eventi, di luoghi, di personaggi, bensì da una tensione narrativa implicita fissata nel gesto della messa a fuoco del frammento, del verso, della parola che “dice” inesorabilmente il suo racconto del mondo, la sua presa di realtà. Il punto di tensione è in questa forza lessicale e non in un più consueto intreccio di eventi. Esemplificativi sono i titoli d’apertura dei testi, quasi mai progressivi, e nelle pubblicazioni di “Coliseum” segnati al margine in basso della pagina, scelta che a mio parere costituisce un ulteriore accrescimento della sospensione narrativa, oltre che una originalità grafico-visiva.
Titoli indicativi dell’universo poetico dell’autore sono: “L’aspetto occidentale del vestito”, “Villa Nena”, “Dallo stesso luogo”, “Altri viaggi”; ciascuna poesia è segnata dalla forza del titolo e dal verso annotativo, appena sospeso sull’incanto della memoria e al tempo stesso piantato nella radice dei segni, pregno della sua materialità linguistica.
Considero alcuni esempi significativi:

 

Dallo stesso luogo

Come l’acqua del fiume si muove
contro corrente vicino alla riva
si disperde dentro fili d’erba
lontano dal suo centro
la memoria fa un cammino a ritroso
dove una materia incerta
torna con molti frammenti.

(alla memoria di Edoardo Persico)

Tracce

Presa fra i sassi dove si nasconde
la lumaca fa udire un breve suono
unico segno manifesto
della sua muta esistenza.
Del suo andare solitario
si vede qualche volta una traccia
come una scia luccicante nell’erba.

 

I luoghi citati dall’autore non sono biografici come può apparire ad una lettura immediata e superficiale, bensì resti dell’archeologia del mondo, siti ritrovati, recuperati all’apnea del silenzio, non per essere catalogati o ordinati ma piuttosto per rivitalizzare, rigenerare lo sguardo che vede il mondo e, in quest’azione, rinsaldare il senso della propria esistenza. Lo sguardo del poeta si scioglie così nel più pacifico dei disinganni, dove il microcosmo della “Storia naturale” segna l’ironica e silenziosa rivincita sui clamori della cosidetta “Storia della civiltà”.

Vincenzo Pezzella
Milano, 18 aprile 2002

 
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