Emilio Villa

La poesia sibillina di Emilio Villa

Emilio Villa è mancato il 14 gennaio 2003. Era nato ad Affori (Milano) nel 1914. Oltre che a Milano, è vissuto a Firenze, San Paolo (Brasile) e soprattutto a Roma, dedicandosi a studi di filologia semitica – era un fuoriuscito dal Pontificio Istituto Biblico – e paleogreca, e collaborando assiduamente con artisti d’avanguardia sia italiani che stranieri. Esemplare una sua traduzione in prosa dell’Odissea (1964), nonché di alcune tavolette del poema accadico “Enuma eli” (1939). Ha inoltre condotto un lungo lavoro di interpretazione di molti passi della Bibbia, in particolare del Pentateuco. Ha collaborato a riviste di cultura quali “Frontespizio”, “Letteratura”, “Arti visive” (1953-56) e a riviste d’avanguardia come “Ex” (1961-65) e “Tau/ma” (1980).
Alcuni suoi contributi fra i più pregnanti sull’arte contemporanea sono raccolti in “Attributi dell’arte odierna” (1947-67), ripubblicati da Aldo Tagliaferri (Feltrinelli, 1970).
Per lungo tempo la sua poesia è stata obliterata dalla critica anche, ma non solo, perché Villa è sempre stato indifferente alla sorte del suo lavoro poetico che preferiva far uscire in tirature di poche copie o su cataloghi di amici artisti o su riviste semiclandestine, realizzando volutamente il massimo grado di dispersione.
Nel 1989 tuttavia, per i tipi Coliseum (Milano), il maggiore esperto di Villa, Aldo Tagliaferri, curò una prima parte delle “Opere Poetiche”, raccogliendo testi del periodo dal 1934 al 1958. D’una prevista seconda parte siamo tuttora in attesa.
Villa scrive anche in italiano, lingua che però non ha mai amato perché a suo parere “lingua di schiavitù” d’una “Ytaglya” pomposamente accademica. Ha preferito scrivere nel dialetto milanese, ma soprattutto in un latino di proprio estrosissimo conio, con saporose deviazioni in greco antico, provenzale e inserti semitici, per approdare infine ad un francese sui generis che farà stordire i nativi di quella madrelingua. La contorsione alla quale sottopone l’idioma, ne deforma l’uso corrente, pur non scendendo mai a velleitarie stravaganze, bensì scavando all’interno del linguaggio ove crea sperimentali inedite situazioni.
Con Villa si concretizza l’evento d’una poesia che è abbozzo filologico ed opera d’ermeneuta in un impasto “magmatico ed enigmatico” (Tagliaferri in “Parole silenziose”, “Opera Poetica I” citata).
Tale non è ancora il caso della raccolta “Oramai” del 1947, scritta in italiano con ricorsi al gergale e al dialettale e in toni crepuscolari cui allude il titolo della raccolta, di perdita irrecuperabile, toni che tenderanno in seguito ad elevarsi in accenti sempre più accesi ove quell’oramai si tradurrà in nostalgia per una perduta innocenza edenica.
In questa visione del mondo la storia è rifiutata: “Anche all’osteria crediamo di essere all’osteria, e invece siamo tutti quanti nella storia, buon Pascarella. Invece la storia è uno sbaglio continuo, che non si ferma e non si stanca mai di sbagliare, di rifare, di rivedere, di ricredersi, di affermare oggi per rimangiarsi tutto domani” (recensione a “Stalin, zar di tutte le Russie” di E. Lyons, su “L’Italia che scrive”, dicembre 1941).
Al rifiuto della storia si ricollega la critica del rapporto tra cose e parole: “chi che aspetta di sentire le parole? / o voi / aspettare di sentir le cose tra le cose? Ogni si aspetta / di udire le cose e le parole? Ma chi cosa / e parole che dice, dove sono?” (“Si, ma lentamente”, 1954), e Villa opterà definitivamente di parlare parole e non più cose.
Ma di cose si parlerà ancora in “La tenzone”, finta forma provenzale di scambio alternato di strofe, composta in un impasto di dialetti lombardo e romanesco e parole inventate, un’invettiva contro l’“Ytaglya” del dopoguerra.
Negli anni cinquanta Villa si impegna a fondere le esperienze di glottologo, filologo, traduttore e poeta per crearsi una propria lingua che Tagliaferri descrive quale “espressione personalissima della vocazione neoalessandrina della nostra epoca” (in “Parole silenziose”, cit.), tesa alla coesistenza di esperienze provenienti da culture disparate e soprattutto “nella direzione d’un passato remotissimo, verso il mistero delle origini del linguaggio, ben oltre il sincretismo tra ellenismo ed ebraismo”, tanto da chiedersi se “un cromlech non fosse più intenso e spasmodico del Partenone o del colonnato berniniano” (da “Ciò che è primitivo” in “Arti visive”, maggio 1953).
In quest’alveo confluisce l’esperienza biennale (1950-52) in Brasile, ove la cultura letteraria, specie da parte del gruppo di poeti concreti “Noigandres”, prendeva a modello Pound, Joyce e Cummings.
Tra le tecniche che acquisisce c’è il collage di frammenti di situazioni liriche, mezzo che risale al “découpage poétique” di Blaise Cendrars e che avrà enorme fortuna presso Apollinaire, Pound, Eliot, Gide, per non parlare degli esperimenti dada e del recente “cut up” anglo-americano di Brion Gysin e William Burroughs.
Accanto al collage, compare una singolare variante della glossolalia, che è quel “parlare strano” già menzionato da San Paolo in una lettera ai Corinzi, una forma presente in certe situazioni di esaltazione mistica presso molte comunità religiose. La glossolalia villana scaturisce dal fermento d’una materia linguistica densa di bisticci fonici, di congetture etimologiche, di accostamenti inaspettati ove il suono genera il senso rischiando ognora il nonsenso. E Villa è sempre disponibile a svincolare l’eufonia dal significato: certi passaggi sono del tutto oscuri pur se qualcosa si percepisce di fosforescente come tra fantomatiche presenze abissali. Ecco la voce d’una Sibilla: “Sibilla spuria sibillina discissa per os / … sibilla umbra sedumbrans ad umbris … umbrarumque mysticantia sibilla sexus” (in “Sibilla Burri”) oppure “Sibilla labialis, alis labi queas, limine clam / sigillata, sillaba labyrinthia, labilis labi lilium” (in “Sibilla labia”, 1980-84).
Si crea così una zona ove regna il massimo grado di ambiguità semantica in un divenire senza fine. Va da sé che la glossolalia villana è l’apoteosi del multilinguismo filologico – nelle lingue semitiche i giochi etimologici sono frequenti – , nonché del neologismo elevato a metodo del comporre: il poeta agisce sulla fisicità della parola, nel sottosuolo delle sedimentazioni linguistiche.
Per fare un esempio, preso dalla raccolta “Verboracula” (su rivista “Tau/ma”, 1981) il nome Artemis vien fatto nascere da sequenze foniche sumere e accadiche. Ecco il testo:


                     leges sumerice arade.me.dim.ša
                     ara, seu akkadice namru h.e.splendescens
                     splendit splendita splenduit
                     aut ŝitu, h.e.exiens (luna) in coelo
                     ovvero
                     leggi in sumero “arade me dim sa
                     ara” ossia in accadico “namru” cioè splendescens
                     splendit spendida splenduit
                     oppure “ŝitu” cioè exiens (luna) in coelo


ove “ara” sumero e “namru” accadico significano ‘splendere’ e “me” sumero significa il potere divino.
Tali esiti corrispondono al diverso atteggiamento che nel ventesimo secolo lo scrittore ha assunto nei confronti del linguaggio, pensato non tanto quale veicolo di significati, quanto puro materiale da analizzare in un continuo processo di associazioni e dissociazioni che parte dalla Parole in Libertà futuriste e dal linguaggio transmentale – zaum’ – di Velemir Chlebnikov, Aleksej Kručenych e Iliazd, per sfociare nel totale disimpegno dal senso che è proprio del dada. In alcuni autori il pensiero pare svilupparsi dal suono, si tende a pensare con l’orecchio piuttosto che con la testa: “suono simile vuol dire significato simile” già scriveva Igor’ G. Terent’ev nel 1919 (in “17 attrezzi senza valore”, Tiflis), e in realtà in ogni poeta c’è un aspetto transrazionale.
In “Linguistica” (da “E ma dopo”, 1950) Villa scriveva: “Non c’è più origini. Né si può sapere se. / se furono le origini e nemmeno.”, ciò ch’è conseguente con quel senso di perdita assoluta già adombrato in “Oramai”. Ma la ricerca d’una lingua edenica non l’abbandonerà mai e l’apparenta a Chlebnikov, anch’egli poeta – filologo che scava nelle parole e le ricostituisce con inediti impasti di radici, suffissi e prefissi: l’esperimento linguistico si fa atto estetico. Pure affine alla scissione–congiunzione verbale di Villa è la ‘fonoscrittura’ di Chlebnikov, cioè ricerca di intime fusioni di sonorità simpatetiche e scisse dai significati. Così in Villa il processo di accumulazione tramite l’uso di suffissi e prefissi in un processo di nominazione che è tutto un andirivieni di richiami etimologici.
Centrale, nell’universo poetico di Villa, è il ruolo della Sibilla, vox clamantis in tenebris verborum, che impersona la fondamentale ambiguità del linguaggio tramite la figura dell’enigma, che già per Aristotele è l’antenato della metafora. L’enigma è una messa in crisi della facoltà comunicativa: se la parola è dono divino, ecco che l’enigma è posto dal dio all’uomo in un cortocircuito semantico.
Per comprendere meglio l’idea villana del rapporto tra il divino e l’umano, giova rifarsi agli estratti dell’incompiuto saggio “L’arte dell’uomo primordiale”, stesi verso il 1965, ove il sacrificio, il “sacrum facere”, l’uccisione della vittima, è considerato atto nutritivo divinizzante ma al contempo immanente, senza trascendenza: il “Nutriente-Nutritivo-Assoluto” è pura sostanza e insieme simbolo. L’atto di violenza è positivamente naturale e il segno-incisione-ferita è simbolo di trasfusione di energie vitali. Con la nascita della pittura, dell’arte cosiddetta preistorica, il segno, come espressione del simbolo, tende a sostituire il rito sacrificale. Nell’arte contemporanea Villa vede l’atto del taglio in Fontana, nella cucitura dei sacchi in Burri, nel dripping di Pollock, “un ritorno ai segni-simboli primordiali, dai quali l’uomo storico e tecnologico s’è fatalmente allontanato” (A. Tagliaferri, in “Su E. Villa”, il Verri n. 7-8, novembre 1998).
A sua volta l’impossibilità di attingere all’ineffabilità d’un linguaggio primigenio comporta l’accettazione che la poesia non è purezza, ma un compromesso che rispecchia la condizione umana di perdita del divino, dell’infanzia, forse dell’animalità infantile e quindi di caduta, forse d’un peccato originale, d’una colpa oggettiva e di cacciata dal paradiso terrestre, di forzata discesa dagli spazi aerei della selva ancestrale. Se è compromesso, la poesia dovrà accettare la degradazione della lingua, l’informale materico, e in questo senso la poesia di Villa corrisponde agli esisti dell’espressionismo astratto d’un Pollock, d’un Gorky o all’informale tragico d’un Burri: un lessico informale dunque della “langue nulle, degré zéro” (in “L’homme qui descend quelque. Roman métamytique”, Magma, Roma, 1974): uno spazio nel quale la frase si dissolve e non sarà più recuperabile che a tratti, rischiando ad ogni passo di precipitare nel vuoto del nonsenso, nel “trou” del nulla o del caos primigenio – e “Trou” s’intitolano quattro poemi che si richiamano ai buchi di Fontana, coevi alla serie delle “Sibyllae”.
Nell’orizzonte poetico di Villa permane un valore astorico, assoluto, quel deus absconditus che è al contempo l’effimero e l’eterno, l’inizio e la fine, l’uroburos.
Se il dada Schwitters crea i Merz con materiali di scarto, dal canto suo Villa schizza con gesto tragicamente derisorio, sul ‘blanc’ immacolato della pagina, potenza originaria “inanis et vacua” – ma già Mallarmé aveva scritto che “la destruction fut ma Béatrice” – un melting pot lessicale che mescola e rimescola serie di bisticci paradossali, una continua deformazione – contaminazione dei termini, l’uso indifferente di diverse lingue e crea un idioma onnicomprensivo, inarticolato, totale, polisegnico, farcito d’accidenti ortografici e i parole-baule – “arboraranea” (albero-ragno), “obnubiubilanti deo” (annuvolato-giubilante dio), “nuxnox” (noce-notte) – e parole scisse – “m’ori (un) tur” (nascono-muoiono), “n omina” (nomi-presagi) - , babelica e ierofantica ricerca dei fondamenti delle cose-parole, spersi nella dedalea “Ragnatela di sussurranti millenni”.
(segue: “Antologia Minima”)


Antologia Minima


“Dichiarazioni di un soldato morto”, da “Oramai – Pezzi, composizioni, antifone. 1936-1945”, Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1947
“La Tenzone” (1948)
“Linguistica”, da “E ma dopo”, Argo, Roma, 1950
“Sibylla (foedus, foetus),” da “12 Sibyllae”, M. Lombardelli Ed., Castelvetro Piacentino, 1995
“Poesia in greco classico più traduzione dell’Autore”, da “Le mura di t;éb;è”, galleria Multimedia, Brescia, 1981

 

Bibliografia essenziale

“Oramai. Pezzi, composizioni, antifone. 1936-1945”, Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1947
“E ma dopo”, Argo, Roma, 1950 (con disegni di Mirko)
“17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica”, Origine, Roma, 1955 (99 copie + 5)
“3 ideologie da piazza del popolo / senza l’imprimatur”, Roma, 1958, (con 3 opere di Nuvolo)
“Comizio 1953”, Roma, 1959
“Heurarium”, Edizioni EX, Roma, 1961
“Traitée de pédérasthie céleste”, Colonnese, Napoli, 1969
“Phrenodiae quinque de coitu mirabili”, La Nuova Foglio, Pollenza-Macerata, 1971
“The Flippant Ball-Feel”, Piacenza, 1973 (600 copie in occasione della mostra di tre flippers di W. Xerra e C. Costa)
“L’homme qui descend quelque: roman métamytique”, Magma, Roma, 1974 (con 6 tavole xilografiche di Claudio Parmiggiani)
“le mura di t;éb;è”, galleria Multimedia, Brescia, 1981
“Opere Poetiche I”, a cura di A. Tagliaferri, Coliseum, Milano, 1990
“12 Sibyllae”, a cura di A. Tagliaferri, M. Lombardelli Ed., Castelvetro Piacentino, 1995
“Letania per Carmelo Bene”, Scheiwiller, Milano, 1996
“Zodiaco”, a cura di A. Tagliaferri e Cecilia Bello, Empirìa, Roma, 2000

 

Studi critici

Aldo Tagliaferri, “Parole silenziose”, in “Opere Poetiche I”, Coliseum Milano, 1990
AA.VV. in “Uomini e idee”, n° 2-4, ottobre 1975 (numero monografico dedicato a Villa)
Stelio Maria Martini, “L’avanguardia permanente di E. Villa” in Letteratura italiana. Novecento” diretta da G. Grana, vol. X, Marzorati, Milano, 1979
Stelio Maria Martini e Luciano Caruso, “Emilio Villa” in “Altro Polo. A volume of italian studies”, a cura di Raffaele Perrotta, University of Sydney, 1980
Aldo Tagliaferri, “Occasioni villane” in “Baldus” anno 1, n° 10, settembre 1990
Gianni Grana, “L’iper(dis)funzione critica. Letteratura (Novecento) e poteri istituzionali”, Marzorati, Milano, 1980
Gianni Grana, “Babele e il silenzio: genio ‘orfico’ di E. Villa”, Marzorati, Settimo Milanese, 1991
AA.VV., “Il Verri” n° 7-8 novembre 1998, Monogramma, Milano (numero dedicato a E. Villa)

 

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