da “Bab Ilu” a “Tam Tam” - un percorso esaltante il gioco della poesia di Maurizio Spatola In principio fu un caos di idee e di proposte. Poi
scoprimmo, anzi ri-scoprimmo, il ciclostile e, di conseguenza, la pinzatrice
o cucitrice, con le sue graffette di
varie misure. Con un po’ di materiale da cancelleria d’ogni genere (pennarelli,
taglierina, righello, scotch biadesivo, ecc.) e di vinavil, il gioco era fatto: sul lungo tavolo della
sala da pranzo dei nostri genitori, al secondo piano di via Ettore Fieramosca
9\bis, zona Stadio Comunale, a Torino, prese forma il primo esemplare dell’
“antologia di testi sperimentali” GEIGER, significativamente sottotitolata worksandwordsandworlds
. Era un giorno della tarda primavera del 1967. Raccontata così, la genesi delle Edizioni Geiger può
apparire un gioco da ragazzi e, in effetti, i tre fratelli Spatola (Adriano,
Maurizio e Tiziano, di 26, 20 e 15 anni) in quell’occasione si divertirono come
bambini, anche se dediti precocemente al consumo di vino e birra,
nell’assemblare manualmente quel prototipo e le 299 copie successive: ma il percorso che aveva condotto a quel
risultato - al momento importante solo per noi e un ristretto numero di altri
giovani e meno giovani sognatori di progetti artistici e letterari totalmente
innovatori, ma, quasi quarant’anni dopo, storicamente rilevante - era stato
lungo e tormentato, nella sia pur breve esistenza del poeta Adriano Spatola. Tutti i movimenti artistici e letterari che si propongono
di liberarsi dall’eredità del passato hanno sempre prodotto riviste e
pubblicazioni antologiche, creando un fulcro per la diffusione delle proprie
idee, anche se in ambienti limitati : una condizione oggettiva, quella della
bassa tiratura e della diffusione underground,
che tutte le “avanguardie”
artistiche e letterarie hanno vissuto, nelle epoche precedenti internet. Mio fratello Adriano aveva ben presente questo aspetto
del mondo di cui fin dall’adolescenza aveva deciso di entrare a far parte: obiettivo
che perseguì tenacemente già prima della maturità classica, conseguita al Liceo
Galvani di Bologna, e durante i primi anni di Università. Quello della rivista di poesia, ma di una
rivista tutta sua, da lui pensata, organizzata, realizzata e diretta, fu un
progetto cui si diede corpo e anima sin da giovanissimo, attraverso diversi
tentativi, sino ad approdare al risultato voluto (“TamTam”, il cui primo numero
uscì nel marzo ’72), di cui le Edizioni Geiger, costruite con l’indispensabile
collaborazione dei fratelli, costituirono una tappa fondamentale. Punto di partenza fu proprio un ciclostile, cigolante
nella stanza di Adriano studente ginnasiale a Imola nell’appartamento paterno.
Con alcuni compagni di scuola mio fratello, all’epoca quindicenne, redigeva e
stampava un giornalino studentesco, interessato soprattutto, guarda caso, alla
poesia. L’insegnante incaricato di coordinare e sorvegliare il lavoro dei
giovanissimi redattori era il professore di greco, un tipo simpatico e
distratto, che di cognome faceva Proto (un segno del destino?): in un’occasione
non diede molto peso a quei versi di Rimbaud, Verlaine e Baudelaire stampati
sulla carta grezza del ciclostilato, ma la cosa non passò inosservata agli
occhi di qualche severo genitore e del
preside conservatore e moralista. Il prezzo pagato per quella “bravata” da
Adriano e compagni fu, se ben ricordo (avevo dieci anni), una giornata di
sospensione: il primo, piccolo segnale delle difficoltà che il futuro “poeta
totale” avrebbe incontrato sulla sua strada. Il professor Proto ce lo ritrovammo dietro la
cattedra, con una gamba perennemente agitata da un tic nervoso
durante la sua lezione, sia Adriano sia il sottoscritto nelle aule del Liceo
Galvani di Bologna: sempre simpatico, distratto e disponibile, nonché molto
bravo come insegnante. Il Galvani era allocato in un vecchio palazzo di via
Castiglione, una delle più affascinanti strade porticate medievali che dal
centro storico s’irradiano verso le Porte (orgoglioso residuo della cinta
muraria fortificata d’epoca romana). Procedendo dalle Due Torri lungo via
Castiglione verso l’omonima Porta, oltrepassata quella che allora era la
libreria Palmaverde di Roberto Roversi, si diparte sulla destra poco più di un vicolo: via dei Poeti, dove
si trovavano le due stanzette al pianterreno, con vasta cantina che era
l’osteria del vecchio Paolo, uno dei primi tesserati del partito comunista
(1919) di Bologna e forse d’Italia. Qui, seduti attorno a un lungo tavolo di
legno sotto l’occhio vigile di un busto di Giosuè Carducci, bevendo Albana
frizzante e sbocconcellando uova sode, fette di salame e scaglie di parmigiano,
studenti liceali e giovani universitari si avvitavano in interminabili
discussioni sul passato e soprattutto sul futuro, passando per il presente, della
letteratura e dell’arte, italiana e
non. All’osteria di via dei Poeti nacque e prese forma il
progetto di Bab Ilu, la prima rivista di poesia diretta da Adriano, di
cui videro la luce due soli numeri, nel 1962. La redazione era composta da:
Aurelio Ceccarelli, Miro Bini, Claudio Altarocca e Carlo Conti Marcello. Tra
gli autori pubblicati figuravano anche gli allora giovanissimi Patrizia Vicinelli e Giorgio Celli: lei,
poetessa diciannovenne scatenata nella destrutturazione e ricostruzione del
linguaggio (anche corporeo), apparsa in quello stesso anno anche sull’ Ex di
Emilio Villa, troppo presto avviatasi sulla strada dell’autodistruzione e
precocemente scomparsa nel 1991; lui, allora studente di entomologia ma immerso
nell’atmosfera due anni dopo definita (in una diversa osteria)
“parasurrealista”, poeta intemperante e tortuoso, da oltre vent’anni etologo di
fama non dimentico di quel passato letterario. L’esperienza di Bab Ilu è fondamentale nel
processo di maturazione artistica e filosofica di Adriano, ne costituisce al
tempo stesso un traguardo e un punto di partenza irrinunciabili e
irreversibili. Il titolo stesso della rivista fa esplicito riferimento alla
confusione delle lingue, alla distruzione delle forme espressive antecedenti e
alla costruzione di nuove: non a caso, nel ’61 era stata pubblicata l’antologia
dei “Novissimi” in cui Balestrini, Giuliani, Pagliarani, Porta e Sanguineti
avevano proposto un decisivo spostamento in avanti della linea di confine fra
il passato e il futuro della poesia italiana, tanto nella forma quanto nei
contenuti. Ed ecco che, in particolare, nel secondo numero di Bab Ilu si
manifesta una scelta di campo precisa. In copertina si legge: “siamo contro
Moravia, Roversi, Rendiconti (la rivista bolognese diretta da Roversi),
Pasolini, Piovene. Siamo con Anceschi, Zolla, Banfi, Balestrini, Cesaire,
Robbe-Grillet”, dove assume un particolare significato anche l’aggancio al
gruppo francese di Tel Quel. All’interno, la recensione di Adriano al
libro di Anceschi su Antonio Banfi, “i problemi di un’estetica filosofica”, si
chiude con queste parole: “il vero tradimento dell’uomo verso se stesso (o quel
che è più grave del poeta verso la poesia e del critico verso la storia) è
proprio nella sua disposizione al cristallizzare esperienze vissute a spese
delle esperienze da vivere, e da far vivere”. (un anno prima Adriano aveva già pubblicato, a sue
spese presso il tipografo-editore Tamari, la sua prima raccolta di versi, in
stile post-ermetico, “le pietre e gli dei”. Ma questo è un altro discorso). Il 1963 è un anno di intensa attività letteraria per
Adriano, che partecipa, il più giovane fra gli scrittori presenti, al primo
storico convegno del Gruppo 63 a Palermo: qui incontra, forse per la
prima volta i “Novissimi” ma anche alcuni rappresentanti dell’ establishment
letterario, come Moravia, Giuseppe Bartolucci e Luigi Malerba, alcuni con i
piedi in due staffe (Arbasino, ad esempio), oltre a un acuto osservatore nonché
analista della comunicazione artistica e delle poetiche d’avanguardia, quale
l’allora trentenne Umberto Eco, la cui “Opera aperta” aveva l’anno prima
gettato un pesante macigno nelle acque stagnanti della cultura europea. Ma torniamo a Bologna. Dopo un ennesimo scontro nel
rapporto amore-odio che lo legava a
nostro padre, Adriano era andato a vivere da solo in una monocamera in
vicolo Bolognetti, nella città vecchia, fra strada Maggiore e via San Vitale,
un posto da vero bohèmienne: qui scrive furiosamente, poesie, testi
teorici e critici e recensioni per Il Verri, Nuova Corrente, Il
Mulino e altre riviste; qui per vivere corregge bozze e fa traduzioni; e qui, soprattutto, elabora il testo di
quello che sarebbe stato il suo primo e unico romanzo (“L’Oblò”, Feltrinelli
1964), libro cui per la verità la definizione di romanzo è limitata,
costituendo già un esempio di ricerca linguistica “parasurrealista” attuata con
tecniche di scrittura surrogate anche dalla pop art. Di conseguenza
“L’Oblò” si guadagnò recensioni entusiaste e tremende stroncature in pari
quantità, nonché, ovviamente, scarso successo commerciale. Io allora avevo poco più di sedici anni e nelle ore
libere dallo studio gli tenevo spesso compagnia in quella stanza dai muri
scrostati e il lavandino di pietra, arredata solo con un letto(poco più di una
branda), un tavolo quadrato con quattro sedie (il numero giusto per
l’immancabile pokerino), una libreria e un vecchio armadio. Sul tavolo pendeva
l’unica lampadina coperta da un paralume metallico, a illuminare la piccola
Olivetti, col foglio nel rullo, ticchettante giorno e notte. Sempre in quel
periodo, prese forma con amici bolognesi, modenesi e reggiani, il progetto di
una nuova rivista, Malebolge, emanazione e al contempo voce alternativa
del Gruppo 63, di cui furono pubblicati a Reggio Emilia quattro numeri fra il
’64 e il ’65, grazie anche all’appoggio di un editore milanese attento al nuovo
e allo sperimentalismo, Vanni Scheiwiller. Della redazione di Malebolge facevano parte,
con Adriano, Giorgio Celli, il poeta-avvocato reggiano Corrado Costa, Paolo Carta,
Ennio Scolari, Vincenzo Accame, Giovanni Anceschi e Antonio Porta, uno dei
cinque “Novissimi” ed esponente autorevole del Gruppo 63. Nel suo intervento al
convegno di Celle Ligure del maggio ‘90 su mio fratello, riportato nel volume
“Adriano Spatola poeta totale” pubblicato da Costa & Nolan, Giorgio Celli
ricostruisce alla perfezione le dinamiche psico-letterarie della redazione di Malebolge. Il
problema che si ponevano i redattori più attivi era quello di conciliare un
recupero delle esperienze surrealiste e dadaiste, completamente ignorate in
Italia negli Anni 20 e 30 a causa dell’estetica crociana dominante, con gli
indirizzi della nascente neoavanguardia. Nell’osteria di Roteglia di Castellarano, un paesino
di montagna del Reggiano, dove Adriano si trovava per una supplenza nella
scuola media, il problema fu risolto in una sera nebbiosa, racconta Celli, come
segue: “il punto cruciale era come proporre alla nostra comunità letteraria
una rivisitazione accelerata del surrealismo che non risultasse una esibizione
di fossili, o una operazione da epigoni degli epigoni. Nell’impossibilità di
essere surrealisti, avevamo optato per il parasurrealismo, e quella sera, tra
vino e tigelle, ci confrontammo, e decidemmo il da farsi. Detto in soldoni:
decretammo che il parasurrealismo sarebbe stato una sorta di manierismo del
surrealismo, un surrealismo freddo, alla seconda potenza, rivisitato
soprattutto nelle sue tecniche, con un uso intenzionale e retorico della
scrittura automatica, e della psicoanalisi. Trattando insomma l’inconscio come
metafora, in accordo, lo capimmo più tardi, con un certo Lacan e con la sua
scuola. Ma di Lacan, allora, nessuno di noi sapeva nulla”. Tra continue ammonizioni da Milano del guardingo
Antonio Porta (anch’egli, ahimè, precocemente scomparso nel ’89), e subendo la
scomunica “aperturista” di Edoardo Sanguineti al secondo convegno del Gruppo
63, tenutosi proprio a Reggio Emilia, Malebolge navigò a vista
abbastanza felicemente, e Adriano vi pubblicò, oltre a interventi critici e teorici,
diverse poesie lineari (distinzione d’obbligo, poiché aveva già iniziato a
interessarsi anche di poesia concreta), almeno una delle quali, “sterilità e
metamorfosi” occuperà uno spazio importante in una delle sue raccolte di versi
più significative, “L’ebreo negro” (Scheiwiller, 1966). La rivista reggiana,
che ebbe tra i suoi collaboratori anche il pittore modenese Claudio
Parmiggiani, chiuse i battenti più o meno in coincidenza con la nascita a Roma
dell’ultimo (dopo il corposo Marcatrè) e più noto periodico del Gruppo
63, Quindici, al quale anche Adriano lavorò alacremente dalla primavera
del’68 sino alla tormentata chiusura. Ho
accennato al nascente interesse di mio fratello per un tipo di poesia che aveva
portato la destrutturazione del linguaggio ai massimi livelli, arrivando a
frantumare non solo la linearità del discorso ma anche le singole parole e
persino i segni alfabetici stessi: la
poesia concreta, appunto, che aveva travalicato a partire dagli Anni 50 le
esperienze secolari della poesia visuale (rintracciabili già in taluni autori
alessandrini precristiani), portando alle estreme conseguenze l’attacco agli
schemi letterari tradizionali, rendendo obsolete e passatiste persino le
rivoluzioni dadaiste e futuriste, rimaste anch’esse legate in qualche modo al
significato della parola. La
poesia concreta era nata, si direbbe per germinazione spontanea,
contemporaneamente in diverse parti del mondo: in Brasile, con il gruppo Noigandres,
formato essenzialmente da Decio Pignatari e dai fratelli Augusto e Haroldo de
Campos; in svizzera con Eugen Gomringer, autore di testi concreti che chiamava
“konstellationen”; in Italia, con Carlo Belloli, scoperto già da Marinetti
durante la guerra; in Germania, con Gerhard Rűhm, Franz Mon e altri
autori. Mon, con i suoi text-flache (testi superficie), fu il principale
modello di riferimento per Adriano, che a Bologna con l’editore Sampietro
pubblicò in rapida successione “Poesia da montare” e la sua prima raccolta di
“zeroglifici”. In Italia una prima sistematizzazione di questo ramo della
poesia visuale venne attuata dal poeta torinese Arrigo Lora Totino con la
pubblicazione nel ’66 dell’antologia Modulo. Ma già in precedenza lo
stesso Lora Totino sulla rivista Antipiugiù e tramite l’attività dello
“Studio di informazione estetica”, da lui curato insieme con il pittore Sandro De Alexandris e il musicista
elettronico Enore Zaffiri, avevano dato ampio spazio alle prime manifestazioni
internazionali della poesia concreta. Mio
fratello non aveva perso tempo ed era entrato senza esitazioni nel ribollente
fiume di questa ulteriore sperimentazione artistica e letteraria, alimentato
tanto da grandi correnti globali come quella del movimento Fluxus, quanto
da piccoli affluenti locali come la neoavanguardia italiana, costretta a
esprimersi, come di consueto, in spazi limitati per addetti ai lavori. In un
paio d’anni Adriano era entrato in
fitta corrispondenza con tutti i maggiori esponenti di questa rete di
“tentativi e tentazioni” (come li definimmo qualche tempo dopo in una delle
prime antologie GEIGER), da quelli storici, citati prima, ad alcuni
coetanei attivissimi, tra i quali spicca il provenzale Julien Blaine, che aveva
già pubblicato un paio di riviste intese a erodere il predominio professorale,
anche se formalmente ribelle, degli scrittori di Tel Quel: una di queste
riviste, Approches, redatta insieme con il parigino Jean François Bory,
aveva già ottenuto un notevole successo (di nicchia, ça va sans dire).
Notevole importanza ebbe anche la rivista Où, curata da Henri Chopin,
che conteneva un disco con esempi di poesia “fonetica”. Fondamentali in quegli
anni furono anche i contatti, in molti casi gli incontri personali, con
personaggi quali gli spagnoli Alain Arias-Misson e Julio Campal, i francesi
Ilse e Pierre Garnier, i tedeschi Hansyörg Mayer e Timm Ulrichs, gli inglesi
John Furnival e Dom Sylvester Houedard, lo scozzese Jan Hamilton Finlay, gli
austriaci Gerald Bisinger e Heinz Gappmayr, gli americani Emmett Williams, Dick
Higgins, Paul Vangelisti e Carl Fernbach-Flarsheim, i giapponesi Seiichi
Niikuni e Kitasono Katuè, gli jugoslavi della rivista La Battana, i
cecoslovacchi Bhumila Grogerova e Joseph Hiršhal nonché il futuro presidente
Vaclav Havel e così via. In
mezzo a questo turbine di iniziative Adriano trova anche il tempo di sposarsi,
con Anna Neri a Bologna, il 12 giugno del ’65, mentre il sottoscritto si
preparava ad affrontare l’esame per la
maturità classica. Un anno dopo, nel maggio ’66, nascerà il suo unico
figlio, Riccardo. Durante il mio ultimo anno di liceo mio fratello e io avevamo
vissuto insieme nell’appartamento di via Andrea Costa lasciato dal resto della
famiglia, partito per Torino in seguito al trasferimento di nostro padre, maresciallo
della Guardia di Finanza. In realtà noi due ci vedevamo solo il sabato e la
domenica, perché Adriano aveva ottenuto, sia pure da semplice studente
universitario, una supplenza nella scuola media di quel paesino del Modenese,
di cui si è già parlato a proposito di Malebolge. Quei week-end erano
densi di incontri, in quell’alloggio trasformato in officina letteraria (ma
anche in bisca, dato che le discussioni sulla poesia si concludevano
inevitabilmente con un pockerino, in cui il rischio maggiore era costituito
dall’eventualità che Adriano perdesse all’inizio, poiché perdere gli era
intollerabile e occorreva proseguire a oltranza la partita, fino all’alba e
oltre, per consentirgli di rifarsi…), e furono molti i progetti che vi nacquero
o vi morirono. Fu
proprio in quel periodo che vennero gettati i semi di quella che sarebbe
diventata la nostra Casa editrice. Ricordo il primo incontro fra Adriano e
Julien Blaine, una specie di colpo di fulmine: fra risate, grandi bevute e
scambi di battute nel francese maccheronico di mio fratello e nell’allora
stentato italiano di Julien, si posero le fondamenta di una amicizia imperitura
e di una collaborazione artistica intensissima, concluse solo dalla improvvisa
scomparsa del primo. In quella prima occasione si parlò, fra l’altro, del
progetto di una rivista internazionale che si sarebbe dovuta intitolare Rabelais: quella finestra
pantagruelica sulla nuova poesia non si aprì, ma l’idea rimase e attecchì un
anno dopo, nella casa della campagna parmense, a San Donato di San Prospero,
dove Adriano era andato a vivere con Anna e il piccolo Riccardo. Nel corso di
una memorabile nottata i tre fratelli Spatola (anche il più giovane, Tiziano,
neppure quindicenne, si era gettato con entusiasmo nel nostro progetto un po’ folle
) concepirono e misero in moto il meccanismo che avrebbe prodotto la prima
antologia sperimentale GEIGER, madre delle omonime Edizioni. Ho
già avuto modo di raccontare, in altri luoghi, l’origine di quel titolo e la
particolare maniera con cui decidemmo di realizzare quella raccolta, che doveva
essere una sorta di mosaico di esperienze apparentemente incompatibili: un
discorso basato sul superamento dei confini tra i diversi linguaggi espressivi
artistici e letterari, alle cui premesse erano state poste, come ho già
accennato, dal movimento internazionale Fluxus. Era un progetto basato
sulla contaminazione e sulla semina (o fecondazione) nel terreno altrui.
Discutemmo perciò a lungo, quella notte d’estate del ’66, per scegliere fra le
due ipotesi di titolo che ci sembravano più consone, Geyser e Geiger
. Entrambe le proposte ci apparivano sensate, in quell’insensato, acceso e
alcolico dibattito. Il geyser, noto fenomeno naturale di tipo vulcanico che si verifica soprattutto in Islanda (ma
non solo), con la sua eruzione di acqua e vapori bollenti, non di rado
contenenti elementi radioattivi, si prestava quasi perfettamente per
simboleggiare il nostro progetto: a un tempo fecondatore (getto d’acqua
bollente uguale eiaculazione) e contaminante. Il contatore Geiger, d’altra
parte, aveva il pregio di essere lo strumento di misurazione della
contaminazione radioattiva e della sua intensità. Alla fine, quello che in
seguito ci venne spontaneo definire autoironicamente lo stapp delle
Edizioni Geiger arrivò a una conclusione: la nostra antologia sperimentale, cui
al momento nessuno di noi pensava di dar seguito con successive pubblicazioni,
si sarebbe chiamata GEIGER, ticchettando in presenza di sperimentazioni
poetiche e artistiche di ogni genere specie se sconfinanti, segnalandone la
presenza e la valenza. Il
metodo originale per la sua realizzazione consisteva nel richiedere a un certo
numero di autori operanti negli spazi artistici e letterari cui eravamo
interessati l’invio di 300 copie in formato A4 di un loro lavoro, possibilmente
recante interventi manuali, numerato e firmato. Si trattava di un vero azzardo,
sull’onda del coup de dés mallarmeano, ma la scommessa risultò vincente:
quasi tutti gli artisti invitati accettarono, più o meno entusiasti, e i pacchi
con i trecento fogli cominciarono ad affluire al mio indirizzo torinese, che
era poi quello di nostro padre, poiché anch’io nel frattempo avevo raggiunto la
famiglia nel capoluogo piemontese. Ero io a ricevere il materiale in quanto a
me era stata affidata la cura dell’antologia GEIGER, essendo Adriano in
altre faccende affaccendato e comunque in seguito a una suddivisione di ruoli
che si sarebbe poi mantenuta negli anni successivi. L’elenco
dei partecipanti a quella prima, per molti versi storica, nostra antologia
sperimentale assume, con gli occhi e il senno di poi, un particolare
significato, perciò lo riporto integralmente, anche nella grafica di allora.
Eccolo: “vincenzo accame alain
arias-misson gianfranco baruchello mirella bentivoglio gianni bertini mariano bianca julien
blaine j.f. bory ugo carrega
henri chopin corrado costa carlo cremaschi alessandro de alexandris
giuliano della casa carl
fernbach flarsheim luigi ferro heinz gappmayr marco gerra francesco
guerrieri liliana landi arrigo lora totino ferdinand kriwet lino
matti rolando mignani franz mon
carmen gloria morales maurizio
nannucci seiichi niikuni ladislav novak nico orengo emilio
parisi claudio parmiggiani renato pedio adriano spatola maurizio
spatola f. tiziano (nome d’arte del terzo fratello Spatola) timm ulrichs franco
vaccari jiri valoch frans vanderlinde franco verdi rodolfo
vitone”. La copertina ci fu regalata,
bell’e pronta, dal pittore reggiano Marco Gerra, autore anche di una pagina
speciale (linoleumgrafia), così come il pittore modenese Franco Vaccari, che ci
spedì una splendida serigrafia. Nel
luglio del ’67 tutto il materiale era pervenuto e noi tre, armati di
ciclostile, per stampare alcune pagine “di servizio”, di pinzatrice per assemblare
i fogli, di martello per appiattire le graffette, di vinavil per incollare
alcuni interventi estemporanei di formato minore, di scotch bi-adesivo per far
aderire la copertina al corpo del volume, ci mettemmo allegramente al lavoro
sul grande tavolo della sala, sotto lo sguardo ironico di nostro padre, che
tollerava pazientemente l’incomprensibile lavorìo di quei matti dei suoi figli:
“ne hanno del tempo da perdere, questi fannulloni!”, diceva scuotendo il capo,
rivolto a nostra madre Dina, che sarebbe divenuta nostra complice, eseguendo
addirittura una sua pagina-oggetto, firmata Dinah Cobb, per GEIGER 5
(1972). Nostro padre in parte aveva ragione, perché il nostro sperimentalismo,
più che artigianale, risultava dilettantesco, nessuno di noi essendosi mai
cimentato in una legatoria o in una tipografia: ma dopo tutto per noi
quell’armeggiare attorno alla nascente antologia era anche un gran bel gioco,
il gioco della poesia. La
dimensione ludica della vita costituì del resto un filo conduttore irrinunciabile
nel modo in cui Adriano esprimeva la propria personalità, qualunque situazione
affrontasse, dai rapporti con i familiari e gli amici al lavoro, dagli spunti
creativi a quella negazione della libertà che è la detenzione (sì, anche
durante le poche giornate trascorse in carcere, peraltro per motivi assurdi,
trovò il modo di divertirsi, insieme con i compagni di cella). Pinzata e
copertinata la trecentesima copia di GEIGER, ci imbarcammo sulla vecchia
Fiat 1100 di nostro padre per raggiungere Fiumalbo, il paese dell’Appennino
modenese dove in quell’agosto ’67 doveva svolgersi “Parole sui muri”,
l’esposizione internazionale di manifesti artistici, organizzata da mio
fratello insieme con Corrado Costa e Claudio Parmiggiani, destinata a
trasformarsi nella prima “occupazione” di un intero paese da parte degli
artisti, con risvolti comici, drammatici e politici, ovvero grotteschi. In
quei dieci giorni, dall’8 al 18 agosto, accadde di tutto: oltre ai manifesti
già pronti, arrivati da tutto il mondo, se ne produssero in loco, anche senza
l’utilizzo di carta, cioè scrivendoli o dipingendoli direttamente sul selciato
di vie e piazze o malauguratamente, sulle facciate delle case, i cui abitanti
non accolsero sempre la novità con la dovuta allegria. Il clima era comunque di
festa, ma le polemiche dilagarono, soprattutto per l’intervento del parroco e
di alcuni politici locali, facilitati a onor del vero da alcuni
provocatori fra gli artisti. Grazie
anche all’intervento delle forze dell’ordine, “Parole sui muri” ottenne un
grande successo e notevole risonanza mediatica (giunse anche un inviato del
supplemento letterario del Times). Le
Edizioni Geiger pubblicarono l’anno dopo (numero 7 della collana
“sperimentale”) un libro-documentazione su quell’incontro, che ebbe un seguito
dal 27 luglio al 4 agosto ’68. Il secondo appuntamento si svolse in perfetto
ordine e senza polemiche, tanto che quasi nessuno si ricorda più di quel
Fiumalbo-bis, quasi sempre confuso con la prima edizione. L’evento è stato
recentemente ricordato in bel libro edito nel 2003 da Diabasis, da Eugenio
Gazzola, del quale mi piace riprendere l’idea del paese trasformato in “corpo
di un’opera d’arte, i cui confini riverberavano incerti nell’aria,
riscrivendosi giorno dopo giorno…”. Anche
il 1968 fu un anno denso di avvenimenti per il non più virtuale “poeta totale”,
che sull’argomento stava già abbozzando il saggio che avrebbe dato alle stampe
l’anno seguente con il titolo “Verso la poesia totale” (Rumma editore, Salerno
1969). In marzo partimmo per la Jugoslavia, di nuovo noi tre fratelli Spatola
(Tiziano e io in qualità di “supporto tecnico”), ancora a bordo della “1100”
guidata dall’unico munito di patente, ovvero il sottoscritto: scopo del
viaggio un ciclo di conferenze sulla
nuova poesia italiana, anche visiva e concreta organizzato, per Adriano dalla
rivista La battana, con il
patrocinio del ministero della Cultura e l’ospitalità di varie istituzioni locali. Mente e braccio del tour erano il
belgradese prof. Eros Sequi e il vulcanico istriano Giacomo Scotti, una vera
forza della natura: piccolo di statura, occhiali dalle spesse lenti, da Rijeka
(l’ex Fiume) riusciva a ottenere l’impossibile, conciliando anche ciò che
appariva incompatibile, in campo culturale. Credo lo faccia tuttora, perché
ogni tanto sento l’eco del suo nome in una trasmissione radiofonica dedicata al
contesto mitteleuropeo rivisitato in chiave attuale. Facemmo
tappa, accolti sempre con grande cordialità e interesse, sconvolgendo un po’
ambienti dominati ancora dal realismo socialista, a Lubiana, Zagabria, Belgrado
(dove rivedemmo l’assai graziosa poetessa Biljana Tomić già incontrata a
Fiumalbo), Novi Sad, Sarajevo (un successone, almeno cinquecento studenti
accalcati nell’aula magna dell’Università), Spalato e, alla fine, nel capoluogo
istriano reso mitico da D’Annunzio, dove incontrammo un felicissimo ed
eccitatissimo Giacomo Scotti. Rientrati
in Italia e smaltiti gli eccessi di Sliwovitz, gettammo le basi della Casa
editrice: volevamo fare ogni cosa secondo le regole, perciò registrai alla
Camera di Commercio di Torino le Edizioni Geiger come ditta individuale a mio
nome, come era stato deciso, e poco dopo a Bologna uscì il primo libro, “Il
pesce gotico” di Giorgio Celli (il quale aveva pubblicato con Feltrinelli,
qualche anno prima, uno pseudoromanzo con un titolo dal sentore ugualmente
scientifico, “Il parafossile”): un
volumetto di formato pressocché quadrato, prodotto integralmente in
tipografia, a differenza di quasi tutti
quelli che sfornammo nei mesi successivi, per lo più fatti a mano da noi stessi
in casa, a Torino. Furono assemblati manualmente, ad esempio, “Atest” di Franco
Vaccari, “O Babel” di Adriano Malavasi, “A capo” di Gregorio Scalise, “43” di
Claudio Parmiggiani e “IN/FINITO” di Carlo Alberto Sitta, tutti autori bolognesi
o modenesi, a indicare non i limiti ristretti del nostro orizzonte, ma la
particolare effervescenza “sperimentale” di quella zona, che faceva ticchettare
furiosamente il nostro personalissimo Geiger. Ma
che significa “facevamo i libri a mano”? Voleva dire procedere come per
l’antologia, usando però piccole tipografie per stampare le singole pagine
(proprio una per una, non in ottavi o sedicesimi), assemblandole poi a gruppi
di trenta o quaranta copie per volta sulla solita tavola da pranzo adibita a
piano di lavoro, per poi legarle molto artigianalmente con la pinzatrice e
completare l’opera applicando la copertina
con un nastro biadesivo o con apposita colla. In qualche caso i testi
poetici comportavano stravaganze grafiche incomprensibili al tipografo, cui
davo una mano io stesso sistemando i caratteri mobili di piombo nel modo
voluto, sveltendo il lavoro e al tempo stesso “imparando un mestiere”, come un
apprendista, insomma: un apprendista-stregone. La
realizzazione manuale dei nostri primi libri ci arricchì della capacità di
assaporare quel “retrogusto” bibliofilo creato dal cocktail fra odore di inchiostri e colle, peso, spessore,
consistenza, fruscio della carta, rumori di macchine piane, taglierine a manovella e cucitrici, fumo di innumerevoli sigarette,
toni di voce accesi da discussioni su argomenti tecnici o futili, risate
accompagnate da ripetuti brindisi. Va da sé che le tirature erano limitate, da
300 a 500 copie, ma ciò non smorzava il nostro entusiasmo: soprattutto Adriano,
dividendosi fra Roma (dove nel frattempo si era trasferito), Bologna e Torino,
incitava la manovalanza fraterna, sommergendola di incitamenti, proposte di
nuovi autori e suggerimenti d’ogni genere, talora francamente superflui:
conservo in proposito una ricca, divertente corrispondenza che a distanza di
tanti anni mi mette un po’ di malinconia. E’
bene ricordare, per inciso, che di antologie GEIGER ne realizzammo altre
otto, fra il 1968 e il 1982, la n° 9 non più a mia cura. Alcune copertine erano
firmate da grafici e pittori di fama (Franco Grignani e Maurizio Nannucci, ad
esempio); altre le facemmo a mano, usando carta da pacchi o cartoncino di vario
spessore e colore. Le scritte GEIGER 3 e GEIGER 6 sono autografe
di Adriano, che aveva una gran bella calligrafia: la prima la realizzò ad
acquerello, la seconda con un pennarello blu. Nel 1995, con il sostegno di
Arrigo Lora Totino e Franco Beltrametti (anch’egli amico fraterno di Adriano e
anch’egli precocemente scomparso, proprio in quell’agosto), progettai un GEIGER
10 conclusivo del ciclo, in omaggio a mio fratello e ai trent’anni della
prima antologia. Vi hanno partecipato cento autori di 19 paesi, una trentina in
più di quelli da noi invitati, a significare il persistere nella memoria
collettiva dell’operato di mio fratello e del “messaggio” geigeriano. A
Roma Adriano, il cui matrimonio si stava già sgretolando, era andato per
lavorare in presa diretta a Quindici, il periodico del Gruppo 63 cui già
collaborava. L’incontro con Giulia Niccolai segnò una svolta importante nella
sua vita, l’intenso sodalizio sentimentale e letterario che ne scaturì sarebbe
stato fondamentale nel procedere del suo percorso poetico, come vedremo. Risale
a quel periodo anche l’amicizia con un personaggio fuori del comune del calibro
di Emilio Villa, del quale mio fratello rimase sempre grande estimatore. Il ’68
è famoso per una serie di avvenimenti che hanno rappresentato la svolta epocale
che tutti ricordiamo. Gli scrittori di Quindici non potevano restare
estranei alle spinte esercitate dai movimenti studenteschi e operai: non era
stato il Gruppo 63 antesignano di una rivolta contro l’establishment
socioculturale degli Anni 50? Ma all’interno della rivista si verificò una
spaccatura fra i sostenitori di una letteratura “impegnata”, con alla testa
Nanni Balestrini, e coloro che rivendicavano l’autonomia della ricerca poetica
e artistica dal contesto politico e sociale, capitanati da Alfredo Giuliani: i
tentativi di Umberto Eco di mediare fra le due posizioni, in contrasto via via
più profondo, non ottennero alcun risultato e alla fine del ’69 Quindici
chiuse i battenti. Nel suo libro “La neoavanguardia italiana” (il Mulino,
Bologna 1995) Renato Barilli ha ricostruito in modo documentato e analitico la
tormentata storia della rivista, che qui, di necessità, ho potuto soltanto
sintetizzare. Adriano
visse in maniera molto sofferta, per non dire traumatica, le vicissitudini di Quindici:
se da un lato si collocava dalla parte di chi sosteneva la necessità per la
poesia di procedere per linee interne alle proprie esigenze semantiche e
linguistiche, dall’altro non poteva dimenticare la sua vicinanza alle lotte
operaie e ai movimenti di liberazione in atto nel mondo in quel periodo (a tal
proposito con il pittore bolognese Giuseppe Landini aveva realizzato una serie
di manifesti politici). Uscì molto provato da quell’esperienza e la fuga nella
campagna parmense, nel buen retiro di Mulino di Bazzano, una cascina
ristrutturata di proprietà di Corrado Costa che gliene affittò una parte a un
prezzo amichevole, costituì quella boccata d’ossigeno, in tutti i sensi, di cui
sentiva assolutamente bisogno e che gli fornì le energie per iniziare una nuova
avventura letteraria: un’altra rivista, naturalmente. Il
paese di Bazzano occupa la vetta di una collina, alla cui base si trova la
frazione Mulino, un pugno di case costituenti quasi un corpo unico, a poche
centinaia di metri dal corso del fiume Enza. Un’enorme macina di pietra e la
chiusa di un piccolo canale testimoniano la presenza lì, un tempo, di un mulino
ad acqua. Di fronte a quel torrentello, in fondo a un vasto cortile con al
centro un antico pozzo, c’è la casa dove Adriano e Giulia andarono a vivere
nell’estate del 1970 e che sarebbe divenuta, per tutto il decennio successivo,
polo di attrazione e punto di riferimento della neoavanguardia italiana e
straniera: centinaia di giovani poeti e artisti di mezzo mondo, oltre ai molti
amici, vi affluirono incessantemente, nonostante la difficoltà dei collegamenti
e la voluta assenza nell’abitazione di un telefono. A
Mulino di Bazzano trasferimmo subito anche la sede operativa delle Edizioni
Geiger (della parte amministrativa e commerciale continuai a occuparmi io a
Torino), di cui fu inaugurata subito, accanto a quella “sperimentale”, la
collana di “poesia”: libretti di formato ridotto il cui testo veniva composto
in casa, con una “varytyper” a testina
rotante che rappresentò per noi una grande innovazione tecnologica, mentre
stampa e legatura erano affidate a un piccolo tipografo di Traversetolo, il
mite e paziente Fontanini. Con lo stesso piccolo formato e con l’originale logo
disegnato da Giovanni Anceschi, uscì nel marzo ’72 il primo numero di Tam
Tam (previa registrazione presso il Tribunale di Torino come periodico di
poesia delle Edizioni Geiger), la rivista cui mio fratello pensava da quando Quindici
era entrata in crisi e che, con l’insostituibile aiuto della Niccolai
(condirettrice) e la collaborazione di un piccolo gruppo di amici, fu possibile
mettere in cantiere: la sua attività (anche editoriale, negli Anni 80) sarebbe stata interrotta solo
dall’improvvisa scomparsa di Adriano, il 23 novembre 1988. Nell’editoriale
di quel primo numero, intitolato “La poesia sta diventando”, mio fratello
dichiarava in modo perentorio la sua presa di posizione nella diatriba fra
impegno e disimpegno che aveva dilaniato il Gruppo 63. Eccone un brano
significativo: “…non per colpa ma per merito della poesia le formule dovrebbero
perdere significato, rivelandoci la loro equivocità. La poesia non si deve più
accettare come componente di una cultura che proclama che i propri giochi e i
propri esercizi acrobatici sono di volta in volta una soluzione di fatto. In
questa situazione la poesia ha il diritto di rimandare l’intervento immediato
sulla realtà a tempi più propizi, e di progettarsi intanto come ricerca
autonoma sulle proprie ragioni”. Le
reazioni a quell’editoriale furono vivaci e contrastanti. Adriano fu accusato
di “disimpegno o addirittura di para-ermetismo”, come scrisse in apertura del secondo numero, rispondendo alle
critiche: “altri, forse più meditatamente, hanno supposto in Tam Tam una
vocazione alla opposizione originata da accettabili ragioni civili, ma viziata
dal gusto un po’ aristocratico e démodé della fiducia nel potere della poesia”.
La strada era stata ormai scelta, ma era evidente che non si trattava di un
totale disimpegno, che il problema posto dagli avversari non aveva motivo di
esistere: proprio l’anno prima mio fratello aveva pubblicato, con Geiger, una
delle sue raccolte di versi lineari più incisive, “Majakovskiiiiiiij”, in cui
l’iterazione delle “i” suonava come un richiamo forte alle ragioni fondanti del
marxismo-leninismo, ma anche delle sue contraddizioni. La plaquette faceva
perno su una poesia cui Adriano era particolarmente affezionato, il suo famoso
“Poema Stalin”, cui rimando il lettore. In
quel decennio la produzione delle Edizioni Geiger e la multiforme attività
poetica e artistica di Adriano andarono di pari passo: in crescendo.
Pubblicammo libri-oggetto (splendidi quelli di Lia Drei e di William Xerra),
libri dalla struttura narrativa (di Franco Beltrametti, Lucio Klobas e di
Giorgio Terrone), impegnative monografie di mio fratello sul pittore Francesco
Guerrieri e sullo scultore Valerio Miroglio. Di Giulia Niccolai uscirono due divertenti
testi basati sul nonsense: “Humpty Dumpty” dalla Alice di Lewis
Carroll e “Greenwich”, versi costruiti con nomi di località geografiche, con
risultati spesso sorprendenti per musicalità o ironia (“Como è Trieste Venezia” dedicata a Charles Aznavour). Ma
soprattutto pubblicammo molti titoli nella collana “poesia” e nella nuova
collana “a\z”, di autori alla prima prova, a volte divenuti in seguito famosi,
ma anche di scrittori già affermati, quali Mario Lunetta, Nanni Balestrini,
Carlo Villa, Guido Davico Bonino, Corrado Costa, H.C. Artmann (un accattivante
“Dracula Dracula”), Gerald Bisinger, Jean-Clarence Lambert, Julien Blaine …e
anche di pittori, Gianfranco Baruchello e Giuliano Della Casa, fra gli altri.
Eravamo arrivati a stampare in proprio, grazie all’acquisto di una piccola Offset
da tavolo: Tiziano imparò ad usarla in modo magistrale, vincendo le difficoltà
ambientali (temperatura, aerazione, ecc) con soluzioni creative e improvvisate.
Purtroppo la mia presenza a queste fasi operative era saltuaria, per motivi
familiari e di lavoro, e me ne rammarico tuttora. Adriano
pubblicò altre raccolte di poesie, con la Cooperativa Scrittori (“La
composizione del desto” 1978) e con l’editore napoletano Guida (“La piegatura
del foglio” 1983), oltre che con Geiger. La Red Hill Press di Los Angeles
pubblicò, a cura di Paul Vangelisti, traduzioni dei suoi libri e un’antologia
della poesia italiana “dalla neo alla post-avanguardia”. La sua ultima raccolta
di poesia, “La definizione del prezzo”, uscì postuma nel 1992 (coedizione
TamTam-Martello), con gli svelti e ironici ritratti del poeta eseguiti da
Giuliano Della Casa. Iniziò
anche il periodo delle performances, centrate sulla famosa serie
“Aviation\Aviateur”, “Seduction\Seducteur”, “Variation\Variateur”,
“Vibration\Vibrateur”, ideata quest’ultima in omaggio al musicista Edgard
Varèse e alla sua composizione “Ionisation”. L’attenzione di mio fratello per
la poesia sonora, o fonetica, era nata da tempo, dai contatti con Giovanni
Fontana, Arrigo Lora Totino, Henri Chopin e Bernard Heidsieck, e dal suo
interesse per l’esperienza dei lettristi, in particolare François Dufrêne e
Isidore Isou, nonché ovviamente per i precedenti futuristi e dadaisti. Di qui
nacque il progetto della rivista in audiocassette Baobab, concretizzato
al termine di una serata nella casa del Mulino: seduti attorno al grande tavolo
di legno della cucina, davanti al camino acceso, eravamo in cinque o sei,
compreso il titolare di una piccola casa discografica di Reggio Emilia, Ivano
Burani. Questi era entusiasta dell’idea e aveva già in mente un contenitore
originale per le cassette, in cartone da imballaggio. Il titolo della rivista
fu scelto vuoi per la sua musicalità vuoi per l’assonanza delle tre “b”, non
ricordo bene: Baobab dava comunque corpo ad alcune iniziative
trasversali in nome di un “dolce stil suono” che faceva chiaramente il verso
ai poeti innovatori amici del giovane
Dante Alighieri. All’inizio
degli Anni 80 Adriano diresse anche alcuni numeri di una rivista d’avanguardia
pubblicata a Roma, Cervo volante
a cura di Tommaso Cascella per l’editore Etrusculudens, che uscì per l’ultima
volta nel 1984, quando era diretta da Achille Bonito Oliva ed Edoardo
Sanguineti. Suoi testi erano comparsi su numerose riviste straniere: fra le altre,
le americane Chicago review, Grosseteste review e Invisible
city. Molte
cose erano cambiate, nel frattempo. Preso dai miei impegni di giornalista, io
ero stato costretto a diminuire la mia collaborazione; anche Tiziano si era
ormai defilato, alla ricerca di una sua identità professionale, prima come copywriter,
poi come imprenditore (qual è tuttora). Ma, soprattutto, fra il ’79 e l’80 si
era spezzato il sodalizio sentimentale fra Giulia e Adriano e lei era andata a
vivere a Milano. Al ritorno da un ultimo viaggio insieme degli “Spatola
brothers”, nel marzo-aprile ‘80 questa volta negli Stati Uniti, da Los Angeles
a San Francisco da New York a Boston, fra performances e conferenze, mio
fratello si ritrovò solo, appiedato e senza telefono in quella casa isolata.
Attraversò un periodo durissimo durante il quale la sua crisi esistenziale ebbe
momenti drammatici, di alcuni dei quali sono stato testimone tristemente
privilegiato. Poi
Adriano conobbe una donna molto più giovane di lui, Bianca Maria, che scelse di
stargli accanto. In breve lasciarono Mulino di Bazzano per trasferirsi non
lontano, a San Polo d’Enza, in un appartamento che a lui stava molto stretto.
Un paio d’anni dopo ritrovò una sistemazione ideale, in una grande cascina
rimodernata, sempre in zona, a Sant’ Ilario d’Enza (il corso di questo fiume è
stato una costante, nella seconda metà dell’esistenza di mio fratello): qui
sembrava aver ritrovato la sua carica vitale, aveva anche adibito l’ex stalla a
galleria d’arte. In quegli anni l’attività di Tam Tam era stata
frenetica, con la rivista trasformata anche in Casa editrice: i “tamtamlibri”,
pubblicati come supplementi al periodico, avevano sostituito i “libri delle
Edizioni Geiger”. Indispensabile fu la collaborazione assidua di un poeta
bolognese, Gian Paolo Roffi, divenuto amico di Adriano al punto di essere
scelto come testimone per il matrimonio con Bianca Maria nel giugno ’88. Ma la fine era vicina. Nel
corso dei vent’anni durante i quali Adriano esercitò anche l’attività di
editore, con e senza noi fratelli, la sua figura assunse sempre di più i
contorni socratici (aveva anche le physique du rôle) del maieuta,
mettendo la propria esperienza e il proprio intuito a disposizione di giovani
poeti e artisti, che infatti raggiungevano a dozzine, faticosamente, Mulino di
Bazzano per poterlo incontrare: non tutti se ne andarono soddisfatti, perché
mio fratello non era tenero con chi non gli andava a genio o cercava di
lusingarlo in modo ipocrita, e la sua violenza verbale rimane nella memoria di
tanti. Fra
i primi corsi frequentati alla Facoltà di Lettere e Filosofia a Bologna,
Adriano scelse quello di Estetica, tenuto dal Professor Luciano Anceschi, come
la via a lui più congeniale. Con Anceschi, che a metà degli Anni 50 aveva
fondato la rivista filosofica e letteraria Il Verri, sostenitrice delle
nuove teorie e pratiche poetiche, e che è da ritenersi il padre putativo del
Gruppo 63 e della neoavanguardia italiana, Adriano andò subito d’accordo,
divenendone uno degli allievi più assidui. Da parte sua, il docente prestò
subito attenzione alle iniziative di quel giovane irrequieto, che a 19 anni
aveva già pubblicato un promettente libretto di poesie (“Le pietre e gli dei”)
e poco più che ventenne aveva dato vita a una rivista letteraria. Il
Professor Anceschi seguì sempre con interesse il procedere di Adriano sulla
strada irta di ostacoli della nuova poesia. Ne fu anche mèntore e suggeritore,
dall’atteggiamento quasi paterno. Dalla sua nota in margine alla raccolta “Diversi accorgimenti (per l’abolizione
della realtà)” edito da Geiger nel 1975,
ho tratto perciò le parole con cui vorrei concludere questo viaggio
nella memoria, nella speranza che l’opera un po’ disordinata ma intensa e convinta
di mio fratello, unita al sereno e puntuale giudizio di Luciano Anceschi, serva
ancora da stimolo per quei giovani che considerano la poesia uno strumento di
conoscenza e di ricerca inestinguibile. Dopo
le esperienze giovanili, i rapporti anche inquieti con il Gruppo 63 e la
neoavanguardia, “Adriano - scrive Anceschi - ha riacqistato tutta la
forza di una solitudine attiva ( e non si parla davvero di isolamento) e di
concentrazione. Tutte le esperienze fatte, dalle prime e giovanili
post-ermetiche, al parasurrealismo, alla nuova avanguardia, alla visual
poetry…sono come sedimentate, e messe tra parentesi, se non proprio rimosse. E
una poesia fatta per esorcizzare la disperazione della poesia sta prendendo
figura e corpo in un tentativo non involutivo di ricostruzione, di
ritrovamento, di rinnovazione delle strutture. Mentre per assurdi decreti la
poesia sembra tacere tra stanchezze, ripetizioni, stampi usati, falsi scopi,
rinuncia, e senso di morte, Adriano ha avuto la forza di ricominciare nel
deserto, di ritrovare gli elementi costitutivi o semplici di un discorso
attivo, e ha ridato fiato a strumenti delicati che sembravano costretti per
sempre al museo”. Questo articolo è apparso sul n. 30 del quadrimestrale “Avanguardia” (edizioni
Pagine, Roma , a cura di Aldo Mastropasqua e Francesca Bernardini Napoletano,
dedicato, col n. 29, a Adriano Spatola) e comparirà sul periodico francese
“Doc(k)s” 2007 (a cura di Julien Blaine)
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